“<…> Non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. <…> Ma ho visto anche i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce -si tocca con gli occhi- che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. <…> A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbe mio padre, cosa direbbero le donne? <…> Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos'è guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: «E dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti?». Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”.
Così Cesare Pavese -uno dei grandi poeti e narratori del Ventesimo secolo- conclude ‘La casa in collina’, un racconto della Resistenza -della “guerra civile”, come dice lui- scritto ‘a caldo’ (fine 1947, inizi 1948), nel quale protagonista non è il ‘partigiano’ combattente sulle montagne (che, ovviamente, c’è) o il ‘nemico’ esecrato e sconfitto. È piuttosto la guerra con i suoi morti, sconvolgente e desolato panorama di una tragedia prima ancora che di una epopea. Uno dei racconti che allora se ne fecero, che richiama oggi una struggente, drammatica attualità.
Da venti mesi l’insensata guerra di Crimea-Ucraina ci ha destato da quel lungo periodo che continuiamo a voler definire “di pace”, inauguratosi -sembrava- con la sconfitta del Nazismo a livello mondiale e del Fascismo qui da noi. La Ricostruzione, un po’ dappertutto, in Europa e il ritrovato dinamismo imprenditoriale con il conseguente “miracolo economico” hanno distratto l’attenzione da quanto accadeva ‘oltre i mari’, mentre il consolidamento economico e militare degli USA pareva sufficiente trincea all’estensione del ‘pericoloso’ e complesso universo oltre cortina, oltre quella che fu definita da Churchill appunto la “Cortina di ferro” a salvaguardia biunivoca del confine fra l’‘Occidente’ liberale e progressivamente liberista, e l’‘Oriente’ comunista gravitante attorno all’Unione Sovietica. Il resto (“Terzo mondo”, lo si chiamava) era realtà informe e sfumata, e ne giungevano echi quando le “colonie” africane o l’immensa India manifestavano inquietudini che disturbavano i manovratori della locomotiva del progresso.
L’invasione russa dell’Ucraina, oggi, ha reso manifesto il dato di fatto che quella pace di settanta anni stava solo nella nostra fantasia o nella nostra speranza. E quei settant’anni hanno in realtà visto innumerevoli conflitti più o meno locali, più o meno intensi, sui quali la cura della nostra pace ha steso il velo dell’indifferenza. Ora “Il re è nudo”: ora la guerra è ai nostri confini. La affannata reazione all’invasione russa dell’Ucraina ne è testimone: reazione, appunto; poca riflessione, poca attenzione ai contesti, pochissima strategia. Oblio delle storie dei popoli, della Storia e dei suoi documenti. Muscoli e armi, dichiarazioni roboanti, insulti infantili, “sanzioni” e controsanzioni, rappresaglie e propaganda. Sperando di liberarsi alla svelta da questo impaccio, che ci distrae dalle nostre “normali” occupazioni.
E ora ci si sono messi anche i mediorientali! Sembrava che tutto fosse fermo -a parte le folkloristiche fiammate delle “Intifade”- e che tutto potesse ‘aggiustarsi’ col tempo: bastava non guardare o non ascoltare, o ascoltare solo ciò che ci confortava. Eppure questa guerricciola arabo-israeliana è cominciata appunto quando Pavese scriveva ‘La casa in collina’, settantacinque anni fa. E non si è mai interrotta. E non è una minuscola questione di patrie e di confini. O almeno, i confini che ci interessano sono in realtà appena più a Sud, a delimitare gli immensi giacimenti di petrolio che da un secolo polarizzano l’attenzione dell’Occidente e dell’Oriente, alle radici della “sistemazione” politica di quell’area (dopo la Grande Guerra), nel tentativo di farne docile riserva di energia preziosa per la locomotiva economica. Per questo della questione palestinese in realtà ci si è sempre occupati, ma non per trovare una soluzione del problema quanto piuttosto per neutralizzarlo. E non ci si è ovviamente riusciti. E ora eccolo riesplodere, e riproporre alla nostra vista la tragedia della guerra, epilogo finale di ogni vicenda umana -sembrerebbe-, perché è l’unica cosa che siamo bravi a fare. Chi più, chi meno. Esattamente come per l’Ucraina: armi e morti.
Più antica e più pervasiva, ma non per questo più considerata, un’altra guerra accompagna anche i nostri giorni: quella per il diritto alla sopravvivenza, alla dignità, alla libertà, alla giustizia. Di solito non è considerata una guerra, perché sia tutti d’accordo a riconoscere quel diritto a tutti e a ognuno. Ci si rende conto della sua gravità quando l’indifferenza per chi non ne ha mai fruito lo costringe a cercare una possibilità di sopravvivenza nel Paradiso (Orto chiuso) dell’opulenza -il ricco Occidente- anche a rischio della vita, affrontando i pericoli del mare su barche impossibili e nascondendosi i pericoli del Paradiso e dei suoi gelosi custodi. E per nostra buona ventura ancora i disperati emigranti portano con sé una riserva di speranza di riscatto: quando questa diventerà collera, allora i morti di questa guerra non saranno più da una sola parte.
Continuamente vediamo immagini di morte. Continuamente ascoltiamo commenti sdegnati sulla crudeltà diffusa, come se la guerra -anche quella contro i disperati- non avesse come arma prima appunto la crudeltà. Abbiamo bisogno di sfogare la nostra paura e la nostra indifferenza nella scelta della “parte giusta”. Ma forse bisognerebbe cominciare proprio dalle parole di Pavese: “«E dei caduti che ne facciamo? Perché sono morti?». Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero”.
Luigi Totaro