Quando scrissi la storia del turismo annotavo di un'Elba perduta, quella del “si può parcheggiare l'auto aperta e con le chiavi nel cruscotto, tanto chi te la ruba”, quella del “ si può uscire per farci un giro e lasciare la porta di casa aperta, tanto chi vuoi che entri”. Quell'osservazione la riscriverei pari pari. Perché quella non è un'Elba di cui ho letto sui libri, o mi sono fatto raccontare: ne ho un ricordo diretto.
Proprio nello stesso periodo stavo facendo un sentiero a Pomonte, dove avevo incrociato dei turisti. Avevo scambiato con loro qualche chiacchiera, illustrando l'uso dei magazzini della valle, e buttando là anche la considerazione dell'Elba perduta di cui sopra. Ricordo che uno di loro mi disse: “Ma se vivevate in questa sorta di Svizzera, perché ci sono quelle sbarre alle finestre?” Era un'ossevazione giusta.
Risposi che le due cose non sono in contraddizione. Ma vanno contestualizzate.
Gli elbani hanno vissuto per secoli un'età della sopravvivenza. La loro ricchezza non era dentro le case o in mezzi, che peraltro non avevano, come le auto. Ecco perché per molti anni si tendeva a tenerle aperte o incustodite: la convinzione che non ci fosse niente da rubare, e che vivessimo in una società disinteressata a violare un non certo ricco spazio privato, è persistita fin quasi alla fine del secolo scorso, quando progressivamente ci siamo svegliati da un sogno, per accorgerci con brutalità che ricchezza e “valori” consumistici, da un lato avevano spinto i borghesi a un generale individualismo e una diffidenza verso “l'altro”; e dall'altro avevano marginalizzato le parti psicologicamente ed economicamente più deboli della nostra società, spingendole verso la microcriminalità.
Nell'età della sopravvivenza l'unica ricchezza degli elbani era nei magazzini, nelle cantine, nei campi. Perdere un raccolto, una vendemmia, le botti di vino o gli attrezzi da lavoro, poteva essere una disgrazia immane. Quasi tutta la società elbana viveva di un'agricoltura privata, che le assicurava una grossa fetta di sussistenza. Ecco perché usci o finestre di casa potevano restare aperte, ma un magazzino e una cantina dovevano essere inaccessibili e protetti. Contro i fattori naturali, certo.
Ma anche contro quelli umani. Perché quella che veniva appunto considerata una ricchezza poteva suscitare bramosia o ripicca da parte di altri. I furti nelle case potevano essere rari, ma quelli in cantine e orti non lo erano affatto.
Ho avuto la fortuna di conoscere alcuni degli ultimi “lombardi”, ormai stabilitisi all'Elba, braccianti così chiamati per l'antica usanza degli italiani del centro-sud di designare i connazionali a nord di Bologna. In realtà molti di loro giungevano all'Elba da paesi dell'Appennino emiliano. Uno di loro, che, nonostante una vita passata a Capoliveri, manteneva l'inconfonbile accento emiliano, da giovane lavorava al servizio della fattoria Garbaglia, a Mola. Mi raccontava che spesso le sue mansioni non erano solo quelle di bracciantato, ma anche di vigilanza, specialmente notturna in estate, in quanto i furti di uva e frutta erano frequenti. Addirittura Gastone Garbaglia, conoscendolo come un ragazzo con la testa sulle spalle, lo aveva dotato di un fucile da caccia. Ovviamente doveva usarlo solo come intimidazione, ma questo la dice lunga fin dove i ladri si spingessero per rubare.
Ma è nell'altro aspetto, quello delle invidie e dei dispetti, se non nelle faide famigliari, che emerge quell'arcaismo dei rapporti sociali elbani, che caratterizza buona parte dei paesi dell'isola. La disamistade, splendidamente cantata da Fabrizio de Andrè nella canzone omonima: quella che “si oppone alla nostra sventura, questa corsa del tempo a sparigliare destini e fortuna”.
Essere presi in antipatia, o aver fatto a qualcuno uno sgarro (o qualcosa preso per tale), poteva costare caro. E questi episodi potevano essere gravi. Mi hanno raccontato di distruzioni e vandalismi a cantine. Di incendi a pagliai. Di taglio dei fusti delle viti di interi vigneti. Addirittura del taglio dei garretti di asini, colpevoli solo di appartenere al padrone “sbagliato”.
A parte gli episodi di maltrattamento di animali, a cui dedicherò un capitolo a parte, la gravità di certi atti si poteva capire solo in quella società: distruggere o dare fuoco a una cantina significava un anno di lavoro nei campi perso, attrezzi distrutti e da sostituire con una spesa economica per quei tempi pesante per tasche non certo facoltose. Un vigneto tagliato, poi, significava anni per un nuovo reimpianto e il ritorno a nuove vendemmie, oltre al costo economico. Un pagliaio bruciato significava dover trovare da altri il fieno necessario a nutrire i propri armenti. Per alcuni subire questi atti criminali era la catastrofe.
Questo pensiero arcaico di vendetta quasi tribale non è però morto con quella società. Ce lo portiamo dietro ancora oggi. E non si è certo attenuato con l'evolversi della società. Anzi. Basti guardare alla cronaca degli ultimi anni, dagli incendi ai vandalismi contro mezzi e proprietà. Giovanna Neri, compianta esponente di Legambiente, mi raccontava delle intimidazioni che gli ambientalisti elbani subivano durante gli anni caldi dell'istituzione del parco nazionale. E anche in quelle occasioni qualche anima candida intonava il coretto “sono episodi estranei alla nostra pacifica società”. No, quella cultura di risentimento ancestrale e insensato, di vendetta violenta e distruttiva, ha attraversato i secoli, passando indenne da una società rurale a una borghese, talvolta da un piano puramente materiale a uno stupidamente ideologico. Cambiano i simboli (dalla distruzione della cantina di ieri a quella dell'automobile di oggi), ma non il filo (il)logico che li unisce.
E non arriva dai cattivi continentali: è sempre stata connaturata nella società elbana. Iniziamo a riconoscerlo adesso, perché il nostro viaggio attraverserà nefandezze anche peggiori.
Andrea Galassi