Immaginate se una mattina vi svegliaste per un'altra giornata di lavoro, e scopriste il vostro mezzo professionale bruciato. Furgone o camion o ruspa distrutti, attrezzi in esso contenuti andati persi. Un danno economico devastante, la vostra attività ferma, tutta la trafila per doversi dotare di nuovi mezzi e attrezzi che durerà giorni se non settimane. E tutto per un balordo che vi ha preso di mira e ha giocato al piromane coi vostri beni. Anche questa è una scena a cui purtroppo abbiamo assistito all'Elba negli ultimi anni. Come a quella delle anime candide del presepio che intonavano il coretto “sono episodi estranei alla nostra pacifica società”.
Quale “nostra pacifica società”? Forse quella che in passato ha conosciuto il taglio dei garretti degli asini, come sfregio o vendetta nei confronti di un “nemico”? Perché questa scena da cultura arcaica contadina è madre di quella suddetta dell'attuale cultura borghese. Dove sta il filo (il)logico tra le due cose? Nel fatto che gli asini in passato erano né più né meno che i mezzi di lavoro degli elbani, come lo sono i furgoni oggi.
Nella società attuale si è sviluppata una forte coscienza animalista. Infliggere una sofferenza a un animale è giustamente considerato un reato, e accende di rabbia i più sensibili al tema. Ma per gli elbani del passato, per quanto alcuni mostrassero la stessa sensibilità, c'era anche l'aspetto funzionale. Un somaro con i garretti tagliati era inutilizzabile per i lavori in campagna. Non solo. La cosa più terribile era che, per molti contadini, ormai era un animale da abbattere. Non era una questione di cattiveria, ma economica. Le scarse rendite non permettevano di mantenere fino alla fine dei suoi giorni un animale menomato; il fieno non poteva essere sprecato per bocche improduttive. È una cosa tremenda da dire, ma spesso l'unico atto misericordioso per quel povero asinello era farla finita. E tutto per una stupida faida da uomini.
Ma va rilevato un altro aspetto poco commendevole di quel rapporto che intercorreva tra gli elbani del passato e gli animali. Se nel dopoguerra la viaggiatrice inglese Averil McKenzie-Grieve, nel suo “Aspects of Elba”, rimane piacevolmente colpita dall'amore per gli animali che gli isolani dimostravano, a differenza di altri popoli che aveva conosciuto; non allo stesso avviso era giunto, oltre un secolo prima, il suo connazionale William Jervis. Questi nel 1839 visitò la miniera di Rio Marina, nel 1862 scrisse “The mineral resources of central Italy” e nel 1874 “I tesori sotterranei dell'Italia”. In entrambe le opere le condizioni dei somari impiegati in miniera sono descritte con toni crudi. Nella seconda si legge: “Era cosa straziante vedere il modo barbaro con cui sovraccaricarono circa 130 somari coperti di piaghe, che derivano al trasporto del minerale in ceste sino alla marina, spinti da ragazzini armati di pungiglioni. Ad ogni momento si vedeva cadere queste povere bestie affamate, incapaci di alzarsi e che finivano per rompersi le gambe”.
Nella prima opera la sua descrizione entra nello specifico, e traduciamo: “[Gli asini] erano sovraccarichi delle coffe che dovevano portare, ed erano assicurate con strette corde al basto contro le cadute oltre la testa, quando scivolavano, che per tutto il viaggio in discesa erano tenute in un innaturale stato di tensione. Un piccolo monello scalzo, che camminava loro a fianco, infliggeva colpi occasionali alla testa dei poveri animali al lavoro, anche se senza effetto, poiché non avevano bisogno di guida, abituati al loro compito e che procedevano sagacemente per la loro strada, e si fermavano solo prima dei mucchi di minerale alla spiaggia. Gli asini erano appena in grado di camminare sul terreno sgombro, figurarsi se i loro muscoli potevano reggere continuamente questi carichi. Mentre osservavo questi convogli di asini, avanti e indietro, una sfortunata bestia si era fermata per riguadagnare un po' di forze, estenuata dal peso delle ceste, ed era stramazzata al suolo. Per qualche tempo nessuno arrivò ad assisterla, e così rimase finché finalmente fu liberata del carico”.
E non si tratta di considerazioni di un sensibile protoanimalista, perché degli stessi maltrattamenti si rendeva conto nientemeno che il direttore delle miniere Cortese, agli inizi del Novecento, che scriveva: “Un ragazzo può condurre tre o quattro di questi animali, i quali disimpegnano il loro lavoro con una docilità e una intelligenza che meriterebbero loro un trattamento migliore di quello che ricevono”.
Quella schiuma della terra, che di notte teneva l'asino legato all'anello fuori dalle cantine (perché spesso nelle cantine ci doveva dormire e mangiare), che poteva essere vittima o carnefice di stupide faide, era i nostri nonni. Non dimentichiamocelo mai, prima di farci presepi mentali sulla nostra società.
Andrea Galassi
Foto tratta dalla pag. FB: Miniere di Calamita Capoliveri Isola d'Elba