GIOCHI D’INFANZIA - PRIMA DELLA GUERRA - LA SCUOLA - LA FAME
Mi chiamo Riccardo Osano, professore di Lettere alla Scuola Media di Portoferraio, ora in pensione, che, come penso altri colleghi che si trovano nella stessa situazione, ha conservato, in alcuni cassetti di casa, i ricordi più belli lasciati dai numerosi ex alunni e, fra questi, anche le ricerche svolte su vari argomenti.
Alcuni giorni fa ho posato gli occhi su un lavoro eseguito dagli alunni di una classe seconda nell'estate del 1997.
Avevo chiesto di intervistare i loro nonni su ricordi rimasti impressi sulle vicende da loro vissute durante la Seconda Guerra Mondiale. Gran parte degli allievi aveva nonni elbani per cui si decise di dividere la ricerca in due capitoli, uno più corposo sulle vicende elbane ed un altro per il resto del territorio italiano o estero.
Ciò che riporterò è il capitolo sull’Elba. Non c’è alcuna pretesa storica, ma vuole offrire aneddoti che sottolineano più che altro la forza d’animo di questi
testimoni di fronte alla tragedia della guerra.
Faccio presente che questi nonni, nel 1940, erano giovanissimi con un’età che andava dai sei anni ad un massimo di ventiquattro.
Noterete che la maggioranza di loro sono donne: più memoria storica o più coraggio nel dover tornare con la mente a quei momenti tragici? Chissà.
Termino questa introduzione facendo presente che, per rendere più accattivante la lettura, ho sovente omesso le inevitabili ripetizioni su certe vicende che hanno coinvolto tutti i testimoni e l’intera popolazione elbana.
Una delle mie allieve, forse impaurita dall’argomento da trattare, volle subito sapere da sua nonna se in quel periodo, nonostante tutto, dedicassero del tempo al gioco.
Nonna MARISA BURELLI, che aveva nel 1940 sei anni e ben otto tra fratelli e sorelle, le ha risposto - C’era la fame, c’era la paura delle bombe, ma noi bambini ci divertivamo tanto lo stesso, non c’erano giocattoli e si facevano i soliti giochi: nascondino, ruba bandiera, moscacieca, ciambella, piastrella e alle “belle città".
Nonna DINA CANAPINI, nel 1940 quattordicenne, ci narra invece come si viveva all’Elba prima che scoppiasse il conflitto - Prima della guerra si viveva bene perché un senso di solidarietà legava tutti gli elbani.
Se uno, ad esempio, faceva il pane, ne dava una parte anche al vicino di casa. Certo le paghe erano molto basse, ma un lavoro era assicurato: alle fornaci (il carbone per la fusione della ghisa veniva portato dalle navi) o nella cementeria o nelle miniere di Rio o, se no, nei campi e nella pesca.
Mio padre tornava a casa ogni quindici giorni sporco di carbone, ma con la paga di 5 lire.
Poi c’erano i marinai del porto e quelli imbarcati sulle navi militari o facevano i soldati sul forte. Anche quando iniziò la guerra per gli elbani non cambiò nulla, continuavano la loro dura vita senza pensare a ciò che succedeva in continente.
Quando arrivarono i primi tedeschi, i rapporti con loro erano normali ed alcune donne, in cambio di cibo, ricucivano o lavavano i loro indumenti.
LUIGI VILLANI, allora dodicenne, aggiunge una considerazione - Rispetto a tante zone anche della Toscana, la vita all’Elba non era allora così brutta - Quasi tutti poi, vista la tenera età, andavano a scuola.
MARISA BURELLI frequentava le Elementari a Concia di Terra - Era dura, soprattutto d’inverno, partivo a piedi dalla Padulella e si pativa un gran freddo anche in aula perché non c’era il riscaldamento e non si riusciva a tenere la penna in mano, non avevamo nè scarpe invernali, nè giacche impermeabili, non avevamo neppure la cartella e non c’erano le biro, ma pennino e calamaio.
Dopo le Elementari sull’isola c’era solo il Liceo Classico Foresi vicino alla chiesa della Misericordia.
Ciò spiegava in parte il fatto che, per la maggioranza di loro, la scuola terminava con la Quinta Elementare se non prima e, come accennava Marisa Burelli, bisognava raggiungere la scuola a piedi visto che non c’erano mezzi di trasporto e le biciclette erano un privilegio di pochi lavoratori.
L’argomento su cui tutti i nonni hanno avuto molto da dire è stato certamente quello legato al problema di come procurarsi il cibo durante la guerra.
Tutti hanno sostenuto che, con la tessera annonaria, si faceva la fame e quindi bisognava ingegnarsi per trovare qualcosa da mettere sotto i denti.
ANNA ROSANI, allora quattordicenne, afferma che il momento più critico fu dopo il novembre del 1943.
- Per noi riesi era un dramma, l’agricoltura locale era scarsa per non dire inesistente. La pesca, non si sa perchè, era vietata ed erano stati interrotti i traffici dei piroscafi dell’ILVA per il trasporto del minerale che permetteva all’equipaggio elbano, in gran parte riesi, di portare a casa qualcosa da mangiare comprato a Genova o a Bagnoli.
Passato il periodo della frutta e verdura estiva, rimaneva soltanto la zucca gialla, ma per noi giovani, senza pasta né condimento, era veramente quanto di peggio si potesse desiderare.
Quel po’ di farina che c’era veniva da Piombino con un piccolo bastimento di trentacinque tonnellate di stazza e la panificazione era garantita per un solo giorno. Tutti controllavano se il mare non fosse in burrasca perché, in quel caso, non c’era pane sulle nostre tavole.
Quel bastimento si chiamava “La volontà di Dio“ ed era guidato da tre fratelli: Francesco, Lelio e Piero Pennello, originari di Marina di Campo, ma riesi per
adozione.
Ricordo una tempesta di scirocco che durava da tre giorni ed allora i fratelli vollero rischiare e partire lo stesso da Piombino. Quando si avvicinarono all’isola, c’era gente ad aspettare e c’ero anch’io. Vidi la barca ondeggiare paurosamente vicino a terra ed alcune persone cercarono di dar loro una mano anche perché la barca aveva pure un’avaria al motore ed i fratelli furono costretti in quel frangente ad alleggerire lo scafo buttando a mare diversi sacchi di farina e poi si riuscì a farlo giungere a riva portandolo a strascico.
Alcune famiglie, vedendo quei sacchi buttati a mare, ma vicini alla riva, cercarono di recuperarli e la mia famiglia riuscì a prenderne uno e così, il giorno dopo, si mangiò pasta fresca, schiaccine e focacce. Era stata proprio “la volontà di Dio“.
Una storia molto simile perché legata ad un sacco di farina la racconta VITTORIO COLOMBINI, allora dodicenne.
- Mio padre lavorava nello stabilimento dell’ILVA. Quando successe il fatto di cui ti parlerò, l’isola era occupata dai tedeschi che avevano stipato nei magazzini dove lavorava provviste di farina, zucchero ed altra cibaria. Imitando alcuni suoi compagni di lavoro, prelevò un sacco di farina, ma, preso dall’ansia, gli cadde di mano lungo la strada di casa e l’involucro si ruppe, ma non si scoraggiò e, alla bene e meglio, raccolse da terra la farina fuoriuscita portando il tutto alla dimora. La mamma si mise subito a preparare le schiaccine, ma, quando le addentammo, si sentiva la terra scricchiolare sotto i denti - e aggiunge - la fame era tanta, basta pensare che ad ogni persona venivano dati solo centoventicinque grammi di pane al giorno. I miei genitori, per fortuna, possedevano un po’ di terra in campagna anche se capitava, certe sere, di mangiare solo fichi secchi ed ogni tanto si sacrificava una gallina.
Mia madre aveva una capra e così il latte era assicurato a noi bambini. Sovente cucinava le cicerchie lessate e, se c’era un po’ di farina, faceva le schiaccine, ma senza olio e poco sale perché anche quelli erano limitati nella tessera annonaria.
Si sviluppò ben presto il mercato nero; alcune persone andavano a Piombino acquistando prodotti di prima necessità per poi rivenderli al doppio a Portoferraio, ma c’è da dire che facendo questo smercio rischiavano anche la vita.
MARISA BURELLI, riguardo la fame, si sentiva fortunata perchè anche i suoi genitori avevano un pezzo di terra da coltivare e poi sua madre era una bracciante e veniva pagata con pomodori, patate e frutta.
Scusate l’intrusione sul tema della fame durante la guerra, ma un fatto che mi ha colpito è che un solo intervistato ha accennato alle castagne, frutto, a quel tempo, importantissimo per sfamarsi nel periodo autunnale, ma anche oltre. Ho una mia teoria a proposito: partendo dal fatto che, nel dopoguerra, moltissimi castagneti elbani scomparvero, uno dei motivi forse è stato quello di
cancellare dalla mente quei momenti in cui le castagne, cucinate in mille modi diversi, erano però l’unico cibo con cui togliersi la fame per parecchio tempo.
La parola va ora a NONNA VITTORIA, all’inizio della guerra aveva venticinque anni, la più grandicella del gruppo - Avevo due figli e mio marito lavorava agli Alti Forni; improvvisamente si era trovato senza lavoro e quindi senza soldi per comprare da mangiare e, a complicare le cose, non avevamo nemmeno un orticello da coltivare. Per fortuna all’Elba era ancora forte il senso di solidarietà. Avevamo dei parenti che possedevano della terra da coltivare, anche se piccola, e, se potevano, ci davano un po’ di verdura e, se andava bene, anche un pezzo di prosciutto e del pane, ma sovente ci trovavamo con un solo pezzo di pane da dividere in quattro.