La sera del 21 agosto 1911 il direttore delle miniere Giacomo Mellini sta cenando nella sua villa di capo Pero. È estate, e quindi è piacevole mangiare fuori, sul bel balcone che si affaccia sul mare. Ma quello non è un anno spensierato: infuria il grande sciopero degli operai elbani. E il direttore è nel mirino dei protestatari.
E uno di essi, nascosto dietro una siepe e rimasto ignoto, lo mette letteralmente nel mirino della sua pistola. Fa esplodere due colpi che feriscono Mellini. Il direttore verrà portato all'ospedale di Livorno, con un rimorchiatore della miniera. Verrà dimesso pochi giorni dopo per la scarsa gravità delle ferite.
E dai giornali dell'epoca apprendiamo che non si tratta di un episodio isolato, dato che parlano di “periodici ferimenti” allo stesso Mellini. Pare che anche il fratello, che il direttore aveva nominato capo del personale, fosse fatto oggetto di minacce e sevizie.
Certo, va anche detto che alcuni fogli in quei giorni caldi riuscirono a dare il peggio di sé (come quasi tutti i protagonisti di quello sciopero, peraltro), alimentando un clima criminale. È il caso del giornale socialista Martello che arrivò a scrivere: “troppo, troppo ragionevoli sono stati i due proiettili che hanno leggermente colpito”.
Perché quell'anno si spara anche contro le persone. Anzi, perché all'Elba ogni tanto si spara anche contro le persone. Perché lo scontro sociale, ogni anno che passa, diventa sempre più duro e per alcuni assume adirittura i contorni di una guerra. In Russia è scoppiata una rivoluzione operaia, e qualcuno anche qui da noi spera di portare il “paradiso in terra” con le armi. Non stupisce quindi che nel caldissimo 1920 otto minatori di Rio Marina fossero arrestati perché trovati in possesso di armi e munizioni. E in alcuni casi si arrivò a usarle, a rischio di creare una strage.
Nello stesso 1920, a Piombino, operai delle accierie e compagni elbani assaltarono una caserma dei carabinieri. Questi reagirono sparando, uccidendo un uomo e ferendone altri, tutti elbani. A Portoferraio, in piazza Cavour, venne indetta una manifestazione di protesta per il fatto. Ma qualcuno pensò di solidarizzare meglio con i compagni caduti, sparando a sua volta contro la forza pubblica. Per fortuna non si registrano caduti, ma ciò dimostra che tale livello di violenza estrema non era estraneo neanche agli elbani.
Ma da noi si sono conosciuti anche omicidi, tentati o riusciti, al di fuori di scontri sociali. Come l'omicidio addirittura di un maresciallo dei carabinieri, un certo Arduini, a Capoliveri.
Devo premettere che di questo episodio ho racconti orali, ma ho trovato scarsi documenti. L'omicidio sarebbe avvenuto negli anni '40, secondo alcuni durante la guerra, secondo altri negli anni immediatamente successivi: il militare sarebbe stato ucciso da colpi d'arma da fuoco, in via Roma.
Le indagini si orientarono sulla pista politica: furono anche arrestati due indiziati, noti sovversivi, ma scagionati quasi subito.
Tuttavia, nonostante quegli anni fossero turbolenti e avvelenati dall'astio verso i decaduti fascisti, potrebbe entrare in gioco anche un altro aspetto. Il solito spirito arcaico di vendetta e ripicca, che esulava dalla politica e sconfinava nelle faide, nelle beghe paesane, nell'odio personale. Che spesso non guardava in faccia nessuno, anche chi era investito di una autorità.
I cultori del mantra “elbani brava gente” però mi diranno: sì, ma sono cose che succedono molto di rado. Esattamente con la stessa frequenza di un qualsiasi posto della provincia italiana. E questo dimostra che siamo un popolo come un altro, non gente geneticamente aliena da un omicidio.
Perché in quella società serpeggiava una vena violenta, è inutile negarlo. Tutti avrete sentito che in passato erano comuni le risse per ogni bagattella, a fine di una partita di calcio, in una festa paesana, dopo una bevuta in compagnia, o semplicemente quando a qualcuno saltava su l'uzzolo di menare le mani. Erano le cosiddette cazzottate.
Erano quello che ogni gestore di bettola vedeva come la peste, in quanto portavano a conseguenze spiacevoli: denunce, inchieste, grattacapi, finanche la chiusura. Tanto che in questi locali si trovavano i cartelli “Vietate le risse”, come scrive in una cartolina a un amico anche un testimone di eccezione, Dylan Thomas, nel suo soggiorno a Rio Marina.
Di solito questi episodi vengono raccontati con tono divertito. Ma quello che pochi raccontano è che talvolta in queste risse potevano saltare fuori i coltelli. E anche qui mi hanno raccontato che non ci si limitava al ferimento, ma almeno in un caso si arrivò all'omicidio.
Dicevamo che gli omicidi sono rari, ma come in qualsiasi posto della provincia italiana. Ma c'è una cosa che ci innalza sopra la media nazionale. Rilevata da Sergio Rossi, intervistato già nel 2002 dalla Prof. dell'Università di Siena, Tiziana Noce, nel suo pregevole “Voci di vita elbana”: “Mentre la percentuale annua italiana di suicidi-popolazione è di 3/100.000, una statistica che tiene conto di trent'anni ci pone [all'Elba] a 8/100.000 con punte di 32/100.000 in qualche anno”.
Qualcuno si chiederà che attinenza c'è tra la violenza inflitta e quella autoinflitta. In realtà ci sono un paio di cose su cui riflettere su un tasso di suicidi così alto. Il suicidio è sicuramente una violenza contro sé stessi, ma anche contro gli altri. Parenti e amici che rimangono con un lancinante rimorso di non aver potuto capire o aiutare chi ha deciso di andarsene. Uno dei peggiori inferni con cui fare i conti per il resto della propria vita.
Inoltre un così alto tasso di suicidi sgretola drammaticamente l'illusione di vivere in un paradiso. Un male di vivere serpeggiante che denuncia come certi falsi miti, compresi quelli autoassolutori su noi stessi, siano di cartapesta. Cullarci nella rassicurante idea che noi elbani siamo geneticamente migliori e più buoni degli altri può quindi creare frutti avvelenati. Di cui la parte più psicologicamente debole della nostra società può pagarne una conseguenza altissima.
Andrea Galassi