Capodanno marinese
Quando eravamo bimbetti il capodanno non arrivava, la sua attesa sfrigolava un po’ per le strade nelle miccette e nelle stelline delle girandole che compravamo a cinquini, decini e ventini risparmiati facendo la cresta sulle sigarette dei babbi e sui servizi alle mamme, scoppiava nelle mine di potassio, zolfo e zuccheri con le quali spaventavamo vecchiette e animali e facevamo bestemmiare gli uomini anche durante la notte Santa… ma il Capodanno di solito ci coglieva di sorpresa, addormentanti da un pezzo, in letti scricchiolanti ricoperti di plaid e coltroni per difendersi dal freddo che scendeva dal camino spento e si infiltrava tra le fessure della porta e delle finestre.
Non c’era spumante da stappare, tappi che saltavano, il Capodanno ci coglieva di sorpresa sotto il coltrone con botti e razzi, ululati di cani, grida e fracasso di roba rotta e lo ritrovavamo, il giorno dopo per le strade, nelle stoviglie suppellettili e roba di ogni tipo – i resti dell’anno vecchio appena ucciso e di una povertà che stava scomparendo – dove noi cercavamo, come scienziati post-apocalittici, inutili tesori, frammenti di vita scartata, rimpianti e meraviglie che condividevamo con i gatti ancora terrorizzati, qualche ratto in perlustrazione e gli spazzini incazzati.
Quel che per gli altri era passato, gettato dalla finestra e smembrato per la strada, quel mucchio di pitali, stoviglie sbeccate, suppellettili color nostalgia che oggi farebbero la fortuna di un antiquario, per noi era già il nostro archeologico futuro che ci saremmo dimenticati o avremmo definitivamente rotto, sbuzzato spezzato, entro pochi minuti o poche ore.
Allora Capodanno era ancora freddo, era una fredda promessa di una Befana alle porte e di una primavera che sembrava ancora lontanissima, e puzzava di potassio e cordite, quasi come la guerra terribile e affamata che avevano visto i nostri genitori e lì, per le strade di ciottoli e granito de La Marina, c’era sparso il passato e la speranza, e quel che i marinesi avevano tirato giù dalle finestre a Mezzanotte era una promessa di futuro benessere, una sostituzione e, allora, una certezza che domani sarebbe andata meglio.
E noi, senza saperlo, con i nostri pantaloni corti striminziti, i calzettoni lunghi e i paltò rivoltati, rammendati e rifatti, eravamo gli astronauti di quel futuro che arrivava come un pacifico bombardamento, camminavamo sui frantumi del futuro portato nell’anno nuovo. Ignorando chi fosse Pablo Neruda galoppavamo sul suo cavallino del nuovo anno, erano nostri i sonagli colorati sul suo collo, eravamo noi i giorni che sbattono le palpebre chiari, tintinnanti, fuggiaschi, e si appoggiano nella notte oscura.
E’ passando inconsapevoli da quei confini immaginari del tempo che siamo diventatati quel che siamo ed è per questo che ognuno, ogni popolo e Dio, segna un giorno – non lo stesso per tutti – in cui il mondo vecchio muore e si rinnova, rinasce in un miracolo di botti e di luci, di falò, di superstizione e stupore, di aurora nella tenebra.
E mentre per noi che invecchiamo i capodanni sono sempre più temuti segnalibri del tempo che passa, ci saranno sempre bimbi e bimbe immortali che ad ogni confine del tempo esplorano le misteriose vie che conoscono alle ricerca di un talismano per il futuro che abbiamo gettato da una qualche finestra.
Buon anno
Umberto Mazzantini