Ghisonaccia, Corsica, 4 aprile 1944
Nubi basse e scure correvano veloci nel cielo sopra l’aeroporto militare dove, da meno di due mesi, aveva sede il 350° Gruppo Caccia dell’Aviazione dell’Esercito degli Stati Uniti (USAAF). Nella baracca che ospitava l’ufficio operazioni, due giovani piloti della dipendente 347° Squadriglia, il sottotenente Milton Harber ed il parigrado Robert T. Boyd, apprendevano ogni dettaglio della loro prossima missione dall’ufficiale addetto, il capitano Wilburn L. Bart. Ultimato il briefing, su una jeep Willys, i due piloti raggiunsero la linea di volo. Ai margini della pista, attorniati dagli specialisti, attendevano due aerei da caccia Bell P39N Airacobra. Con l’aiuto degli avieri, i due ragazzi indossarono gli indumenti di volo: il caschetto, il paracadute ed il giubbotto di salvataggio Mae West, dal nome di una procace artista americana allora in voga. Furono strette le cinture di sicurezza e agganciati gli spinotti ed i raccordi della radio e del sistema di erogazione dell’ossigeno. Dopo gli ultimi controlli di rito, pochi minuti dopo, la quiete della campagna còrsa fu rotta dal rombo sempre più regolare dei due motori Allison e le eliche iniziarono a roteare vorticosamente. Un cenno di saluto ed i due apparecchi si mossero, andando ad allinearsi lentamente alla pista, dondolando. Alle ore 11 esatte del 4 aprile 1944, appena scorto il razzo verde lanciato dalla torre di controllo, i due P39 con una lunga corsa decollarono.
La missione consisteva in una ricognizione meteorologica a vista al largo di Livorno. I due caccia costituivano la Dilute Purple Section, con capo sezione il ventenne tenente pilota Harber sul P39N matricola 42-8971 e come gregario il tenente Boyd sul 42-8979. Il piano di volo stabilito alla partenza prevedeva l’avvicinamento alla costa livornese transitando a Nord dell’isola di Capraia ed il ritorno su una rotta che avrebbe portato i due caccia a costeggiare l’Elba settentrionale. Non fu prescritta una precisa quota di volo, ma ad essi fu consigliato di volare «on the deck», ovvero bassi sulla superficie del mare, per evitare di essere rilevati dai radar tedeschi e perché la copertura nuvolosa già alla partenza era pari a circa 1000 piedi (poco più di 300 metri). La durata della missione era prevista in poco più di un’ora, per cui i due Airacobra non furono dotati dei serbatoi supplementari ventrali ma decollarono con 120 galloni di benzina nei serbatoi alari, pari a circa 450 litri per aereo. Alle 11.04 Dilute Purple Section contattò via radio il controllo aereo AMES899 (in codice Toothpaste) comunicando l’avvenuto decollo. Tre minuti dopo il controllo del traffico aereo ordinava a Dilute Blue Section, una coppia di caccia in quel momento in volo, di rientrare alla base. Le comunicazioni risultavano molto disturbate e con pesanti interruzioni. Alle 11.10 «Purple 2», l’aereo del tenente Robert Boyd, comunicò «Salve Toothpaste, ricevo forte e chiaro, stiamo continuando la missione». Fu l’ultima comunicazione tra il controllo del traffico aereo militare alleato della Corsica ed i due aeroplani, dopodiché fu il silenzio. Non fu effettuata alcuna tracciatura della sezione ma, al momento dell’ultima trasmissione, fu stimato che i due aerei si trovassero dalle 23 ai 30 miglia a Nord-Est dalla Stazione AMES 899. Il tempo passava e il nervosismo cresceva presso la base di Ghisonaccia. Il maggiore pilota Francis Grable, comandante del 347th Fighter Squadron, attendeva invano il rientro dei suoi due piloti. Le lancette dell’orologio dell’ufficio operazioni misuravano inesorabili lo scorrere del tempo. Ogni minuto di ritardo corrispondeva al consumo di preziosa benzina, aleggiava un silenzio pesante come un macigno. Alle 12.20 il maggiore ruppe gli indugi e telefonò al responsabile del controllo aereo chiedendo di contattare via radio la Dilute Purple Section. La Stazione Toothpaste ad intervalli regolari effettuò chiamate, ma senza ricevere alcuna replica. I tentativi di stabilire un contatto radio furono interrotti poco dopo le 12.30 quando, a causa del troppo tempo passato, fu chiaro che i due P39N dovevano aver ormai esaurito il carburante e che quindi ogni ulteriore tentativo sarebbe stato inutile.
Alle 13.35 il comandante Grable decollò personalmente alla testa di una sezione di quattro caccia P39N per cercare sul mare un qualsiasi segno della Purple Section. I quattro Airacobra perlustrarono accuratamente l’area che la sezione doveva aver sorvolato nel corso della sua missione, ma senza esito. Alle 14.35 gli aerei atterrarono a Ghisonaccia senza aver avvistato niente. Come ultimo tentativo fu contattato il comando dell’aeroporto di Borgo, nella speranza che la Purple Section fosse atterrata su quella base, ma anche questa via non dette risultati; il locale controllo aereo segnalò di non aver nessuna notizia dei due aeroplani dispersi. Il 6 aprile 1944, passate 48 ore, il comando della 347th Fighter Squadron compilò il Missing Air Crew Report ed in seguito furono contattate le famiglie dei tenenti Harber e Boyd, rispettivamente in Texas e nello stato di New York.
Isola d’Elba, 4 aprile 1944
I due caccia P39N procedevano paralleli sul mare, con il velivolo del tenente Milton Harber in testa a quota leggermente più alta ed il gregario leggermente scartato a destra, in basso. La visibilità era pessima, con banchi di nebbia e nuvole basse. Per motivi che non potranno mai essere stabiliti con certezza, i due aerei americani, intorno alle 11.30 di quel 4 aprile, anziché procedere verso Livorno lasciandosi sulla destra l’isola di Capraia puntarono decisi verso l’isola d’Elba. Si può ipotizzare che una serie di valutazioni errate abbia potuto indurre i piloti a credere che la sagoma incerta di Montecristo, apparsa sulla destra tra le nubi, potesse essere l’isola di Capraia e quindi di fronte a loro non vi fosse più alcun ostacolo fino al litorale tra Pisa e Livorno, basso e sabbioso. I due Airacobra «bucarono» la costa elbana sulla verticale di Seccheto, puntando inesorabilmente verso il massiccio montuoso del Capanne, risalendo la profonda Valle dell’Inferno. Questione di minuti, se non di secondi: improvvisamente di fronte a loro si materializzò la sagoma della cima delle Calanche. Istantaneamente, i due caccia ruppero la formazione tentando di levarsi d’impiccio, su rotte divergenti. Il ruggito disperato dei due motori Allison lanciati al massimo dei giri riempì la vallata, mentre i caccia cercavano di guadagnare quota per superare le sagome incerte delle creste, avvolte dalle nuvole. Per primo si compì il destino del P39N del sottotenente Robert T. Boyd da New York, serial number 42-8979. Virando a destra, colpì in pieno la Liscia del Collaccio, un’enorme formazione granitica a 585 metri sul livello del mare, finendo letteralmente disintegrato, non lasciando scampo al pilota. Viceversa il velivolo del sottotenente Milton Harber puntò decisamente verso le formazioni granitiche dei Campitini, in una cabrata disperata, guadagnando lentamente quota mentre le distanze si serravano. Mancavano pochi metri alla salvezza ma quel giorno la fortuna, che aveva assistito il giovanissimo pilota in numerose missioni, gli voltò le spalle. Il P39 serial number 42-8971, contraddistinto da una grande «R» bianca sulla prua, urtò le rocce affilate con l’ala sinistra, che fu letteralmente strappata trasformando il caccia in una trottola impazzita. Perdendo pezzi e ruotando su sé stesso l’aeroplano guadagnò per inerzia altri metri in verticale e ricadde al centro di un piccolo falsopiano nei pressi dell’antico caprile dei Campitini, a 732 metri sul livello del mare sul versante opposto, in vista di Pomonte. Il pilota, che appena 9 giorni prima aveva compiuto vent’anni, morì sul colpo fra i rottami del suo aereo. Un silenzio ovattato tornò sulla montagna dove, a meno di un chilometro l’uno dall’altro, nebbia e nuvole sembravano voler nascondere i resti della Dilute Purple Section. La tragedia che si era appena consumata ebbe come spettatori i pastori che allora vivevano sulla montagna con i loro greggi e che furono i primi a giungere sul punto di caduta dei due Airacobra. Guidati da uno di essi, sceso a valle a dare notizia del fatto, ben presto giunsero sul posto pattuglie tedesche. Le salme dei due piloti furono recuperate e portate a San Piero in Campo a dorso di mulo, su ordine del comando germanico, che provvide anche a far trasportare a valle l’equipaggiamento di volo ed altri particolari interessanti rinvenuti fra i rottami, allo scopo di poterli valutare. Fu in quel frangente che i tedeschi si accorsero che da ciò che restava dei due Airacobra erano spariti i paracadute dei piloti. Prodotti in pura seta bianca, introvabile all’epoca a causa della guerra, avevano un enorme valore e potevano essere utilizzati per confezionare vestiario e biancheria. Il comandante tedesco emanò un avviso alla popolazione di San Piero. Se entro il giorno successivo i paracadute americani non fossero stati riconsegnati vi sarebbero state gravi conseguenze per tutta la popolazione del paese. Durante la notte i paracadute furono restituiti in forma anonima dal pastore Giovanni Bartoli, lasciandoli in bella vista sulla «murella» della Piazza della Chiesa di San Piero. I resti due piloti furono seppelliti provvisoriamente nel piccolo cimitero del paese e lì rimasero fino al dopoguerra. Successivamente i resti mortali del tenente Milton Harber furono riportati in patria per volere della madre e furono seppelliti nel cimitero di San Antonio, Texas. La salma del tenente pilota Robert T. Boyd fu seppellita con gli onori militari all’American Cemetery and Memorial dei Falciani, nei pressi di Firenze, dove riposa tutt’ora. Tutti e due gli ufficiali furono decorati alla memoria.
Poco tempo dopo la Liberazione, una commissione composta da ufficiali americani salì sulla montagna per un sopralluogo su ciò che restava dei relitti, effettuando delle misurazioni e scattando delle fotografie. Successivamente i rottami dei due aerei, ormai abbandonati, furono pian piano demoliti dagli abitanti di San Piero e Marciana, allo scopo di recuperarne il prezioso materiale. Ancora nel 1946 del velivolo dei Campitini esisteva gran parte della sezione poppiera della fusoliera e, poco distante, si poteva osservare abbandonato il cannone automatico M4 da 37 mm, contorto dall’urto. I motori Allison, dopo uno smontaggio parziale anche con metodi sbrigativi (vigorosi colpi di mazza), nel corso di maldestri tentativi di rimozione finirono nelle profonde vallate sottostanti e là furono abbandonati.
La ricerca
Nei primi giorni di gennaio del 2012 per puro caso, conversando con l’amico Silvestre Ferruzzi, ricordai un episodio avvenuto a Portoferraio nella primavera del 1944 e letto fra carte d’archivio USA. Durante un bombardamento aereo sulla rada in pochi minuti la contraerea tedesca abbatté tre bimotori medi B25 Mitchell di cui uno, a quanto era dato sapere, risultava essersi schiantato sulla terraferma. Dal momento che da poco aveva raggiunto il punto di caduta del velivolo passeggeri dell’Itavia, caduto il 14 ottobre 1960, gli proposi di indagare tra gli anziani del paese di Marciana. Di lì a poco fu possibile avere la testimonianza del signor Delfo Romeo Mazzarri, il quale però ci spiazzò un po’confermando che sì, durante la guerra era caduto un aereo, ma che esso era un «cacciabombardiere inglese o americano», forse del tipo Spitfire, dunque un modello completamente diverso dal B25. Ricordava benissimo il luogo e spiegò che, nel dopoguerra, aveva personalmente provveduto allo smontaggio di parte del motore, mentre gran parte della fusoliera e dei materiali vari erano stati demoliti e trasportati a valle dagli abitanti di San Piero e Marciana, allo scopo di recuperare l’alluminio e tutto ciò che poteva essere utile. Alcuni giorni dopo un secondo colpo di scena: il signor Romeo ricordava che i relitti, in realtà, erano due seppur un po’ distanti l’uno dall’altro e che si diceva che essi fossero caduti sulla montagna nello stesso giorno, in primavera. Anche del secondo velivolo ricordava il punto di caduta. C’era di che avviare una ricerca interessante, anche se gli elementi in effetti erano ben pochi e, nonostante le minuziose ricerche, nessun reparto inglese, americano o australiano risultava aver perso una coppia di Spitfire nel medesimo giorno in quell’area (in Corsica esistevano numerosi gruppi di Spitfire di nazioni diverse). Presi dall’entusiasmo, organizzammo un’escursione sulla montagna allo scopo di trovare qualche traccia dei due aerei. La «missione» del 22 gennaio 2012 ebbe successo al 50%. Presso la grande Liscia del Collaccio fu possibile identificare il punto di caduta e ritrovare dei piccoli reperti sfuggiti ai recuperanti di mezzo secolo prima: frammenti di bakelite appartenenti alla strumentazione di bordo, schegge di perspex della vetratura della cabina di pilotaggio, alcuni bossoli deformati dal calore marcati 1942 e parti in alluminio. I pezzi più interessanti, e trovati con una certa emozione, furono una scheggia dello specchietto retrovisore del pilota e una parte della culatta di una mitragliatrice di bordo, una Browning calibro 0.50 (12,7 mm). Tutti i reperti furono consegnati, a metà gennaio, all’amico Andrea Quiriconi che, con grande passione e perizia, iniziò a ripulirli e restaurarli allo scopo di trovare qualche indizio ulteriore per la mia ricerca. I bossoli si rivelarono di calibro 30 (7,7 mm) fabbricati negli Stati Uniti nel 1942, nel St.Louis Ordnance Plant di St.Louis, Missouri. La matricola apparsa dopo la paziente pulitura di un piccolo e fragilissimo disco di lega leggera in seguito si rivelò fondamentale per la precisa identificazione dell’«aereo del Collaccio». Grazie ad Alberto Batignani, grande conoscitore del territorio elbano, fu possibile avere notizia di un ulteriore piccolo reperto recuperato anni prima sul posto: una piccola fascetta contraddistinta dall’iscrizione «Wittek MFG – Co. – Chicago USA, PAT 1584332». Dell’altro aereo, invece, non fu possibile ritrovare con precisione il luogo di impatto. La ricerca continuava, grazie anche alle possibilità date dalla ricchezza degli archivi alleati, in parte consultabili online. Nonostante la nevicata abbondante, il 7 febbraio 2012 io e l’amico Silvestre tornammo ai Campitini, valicando il Malpasso con la neve al ginocchio, sempre alla ricerca del secondo velivolo che sembrava non volersi far trovare. Niente di fatto, ma la dinamica dei fatti era sempre più chiara. Le testimonianze frattanto si moltiplicavano: grazie all’ingegner Fausto Carpinacci di San Piero era possibile parlare con l’anziano pastore Evangelista Barsalini il quale metteva alla fine sulla strada giusta con testimonianze preziosissime: egli ricordava, tra i molti dettagli, che gli aerei erano armati con un cannone da 37 mm (di cui fino a pochi anni fa si conservavano in qualche casa sanpierese i bossoli) e che essi erano color verde oliva. Il 13 febbraio 2012, nel giro di poche ore e dopo una serie di verifiche e ricerche, il caso era risolto: i due velivoli erano Bell P39N Airacobra del 350° Fighter Group dell’USAAF, 347° Fighter Squadron e risultavano MIA (Missing in action) il 4 aprile 1944 durante una missione di ricognizione meteorologica. Con essi scomparvero i due piloti, Milton Harber e Robert T. Boyd. Con l’aiuto della dott.ssa Gloria Peria si è cercata traccia del passaggio dei due piloti nel piccolo cimitero di San Piero, ma la documentazione risultava in gran parte dispersa in seguito allo sbarco francese a Marina di Campo, nel giugno 1944. Un’ulteriore ricerca ha permesso di chiarire dove i due piloti fossero stati seppelliti successivamente. Grazie all’amico Michele Becchi di Reggio Emilia è stato possibile avere in tempo record copia del rapporto relativo alla perdita dei due aerei ed il relativo carteggio (MACR, Missing Air Crew Report), sulla base del quale è stato possibile ricostruire in ogni particolare la vicenda. Grazie alla medaglietta ritrovata sulla Liscia del Collaccio, infine, ogni aereo è stato perfettamente riconosciuto: la matricola 427226R incisa sul piccolo disco di zinco corrispondeva perfettamente con quella della mitragliatrice Browning calibro 0,50 sinistra dell’aereo serial number 42-8979 del tenente Boyd, «Purple 2».
Gianpiero Vaccaro