Una cosa molto interessante è la connessione che per secoli c'è stata all'Elba tra attività estrattiva e metallurgia. La seconda è sempre stata finalizzata a una prima riduzione del minerale ferroso: probabilmente era più facile trasportare con imbarcazioni le decine di chilogrammi dei blumi di ferro dolce, ottenuti dalla fusione in loco, che quintali di minerale grezzo. È vero che anche sull'isola sono state scoperte tracce di ambienti adatti alla forgia, sia in epoca romana che medievale. Ma un processo completo, dalla fusione del minerale grezzo a manufatti finiti, fu limitatissima, e forse, come è stato ipotizzato, al solo scopo di realizzare utensili da lavoro in miniera e poco altro.
Tuttavia le due attività non sono andate di pari passo. Anzi, per lunghi periodi sembra essere stata privilegiata la sola estrazione e commercializzazione del minerale grezzo. Proviamo ad andare con ordine.
Risulta molto difficile dire quando è iniziata l'escavazione del ferro all'Elba. Le varie ipotesi hanno coperto un ampio raggio, che va dalla metà del IX alla metà del VII secolo a. C. C'è anche la tesi, molto labile allo stato attuale, di Filippo Delpino, che si spinge al X secolo a. C. La sua supposizione si basa sul rilevamento di “incrostazioni di ossido di ferro su oggetti di bronzo del ripostiglio di S. Martino”, attestabile appunto a quel periodo. L'archeologo ritiene che “le incrostazioni ferruginose notate su materiali di questi complessi siano da considerare come indizio della originaria presenza in essi di elementi di ferro è infatti non solo possibile ma anche assai verosimile”.
Comunque sia, sembra che in questa prima fase non ci fosse alcuna attività fusoria sull'isola. Asserisce infatti Alessandro Corretti: “Alcuni fattori rendono oggettivamente conveniente, nel caso elbano, l'esportazione di minerale grezzo: le miniere di Rio si affacciano sul mare, sì che si poteva caricare direttamente il minerale arricchito su imbarcazioni anche di discreto tonnellaggio; inoltre l'ematite di Rio, oltre ad avere un alto tenore in ferro, risulta particolarmente esente da impurità, e quindi adatta ad essere mescolata a minerali ferrosi di altre località, magari meno puri”.
Non è di questo avviso Michelangelo Zecchini, secondo cui contestualmente all'estrazione iniziò l'attività metallurgica, ipotizzando che in origine si usassero bassoforni alla catalana, mentre tra la fine del VII e gli inizi del secondo quarto del VI secolo a. C. “sotto la spinta di una fortissima richiesta di ferro malleabile e stante la necessità di ritmi produttivi tumultuosi, i centri manifatturieri elbani si trovano 'costretti' a sperimentare un'innovazione tecnologica essenziale come quella dei forni chiusi e a struttura sopraelevata, capaci di ridurre sostanzialmente i tempi di lavorazione e, al tempo stesso, di elevare sensibilmente, in qualità e in quantità, la produzione siderurgica”.
Diversi autori invece ritengono che la metallurgia elbana sia iniziata nel IV secolo a. C., decisamente in ritardo con la vicina Populonia, dove è già fiorente dal VII-VI secolo a. C. Questo ampio sfasamento tra le due località starebbe nel fatto che a Populonia l'attività fusoria sarebbe iniziata già col rame, che proveniva soprattutto dalle Colline metallifere, e solo in misura marginale dall'Elba.
Ma la cosa che colpisce di più è il ritardo tra l'attività fusoria e la prima estrazione: almeno tre secoli. Perché il minerale è stato solo esportato in forma grezza così a lungo? È molto probabile che sull'isola non ci fossero le condizioni per un'attività metallurgica per diverse ragioni: perché la società elbana antica era ancora esclusivamente mineraria, e solo in progresso di tempo si differenziò con l'afflusso di maestranze metallurgiche? Perché solo col passare degli anni andò strutturandosi in un'economia più variegata, rendendo possibile un salto di qualità nell'industria e nel commercio del ferro lavorato?
Tuttavia, dal momento in cui parte l'attività metallurgica, non significa che segua una linea di continuità nei secoli successivi, ma abbia momenti di picco e altri di decisa contrazione, se non interruzione. Perché allora in certi periodi si torna a privilegiare l'esportazione del minerale grezzo?
La spiegazione più popolare è quella che il patrimonio boschivo isolano fosse stato distrutto dalle carbonaie che alimentavano i forni, così da rendere necessario spostare l'attività fusoria a Populonia. Spiegazione, tra l'altro, che salta dagli etruschi ai romani, a seconda delle fonti. Ma che sta mostrando tutte le sue crepe.
Per quanto riguarda gli etruschi, si dice che inizialmente la fusione avvenisse all'Elba per essere spostata ben presto a Populonia, perché i metallurghi elbani non si erano accorti (ops, che sbadati!) di star distruggendo i loro boschi. Che gli etruschi mostrassero così poco spirito produttivo, è una tesi a cui non credeva Gino Brambilla, secondo le cui analisi del carbone trovato tra le scorie di fusione rileva le tracce di una rotazione ventennale del patrimonio boschivo. D'altra parte è stato calcolato che il rapporto tra il peso del carbone da usare per un risultato di fusione ottimale e quello del prodotto ferroso finale della stessa fusione fosse di 10 a 1: è quindi evidente l'enorme utilizzo di carbone, che doveva richiedere una necessaria gestione razionale e accurata del patrimonio boschivo.
In epoca romana è il II secolo a. C. che vede un “boom industriale” della metallurgia elbana. Per poi entrare in crisi il secolo successivo, e molto probabilmente cessare l'attività. E anche in questo caso si tira in ballo il depauperamento del patrimonio boschivo elbano come ragione più facilmente spendibile.
Una possibile ragione, certo, ma a cui non tutti credono. Come i ricercatori tedeschi di un recente studio (The furnace and the goat, 2020), che analizza proprio il periodo romano di più intensa impronta metallurgica: i modelli di calcolo sul consumo di carbone per i punti di riduzione elbana fanno scrivere agli studiosi: “Although subject to high uncertainties, the outcomes of our model clearly indicate that it is unlikely that all woodlands on the island were cleared in the 1st century bce”.
Molto probabilmente le ragioni per cui in certi periodi conveniva esportare minerale grezzo e altri favorire un'attività fusoria in loco sono diverse, e di ordine politico ed economico. In certe fasi forse l'Elba era più soggetta a incursioni nemiche e difficilmente difendibile, risultando più sicura la sola estrazione. Inoltre era probabilmente più logico valorizzare un centro manifatturiero e siderurgico del continente come Populonia, più difendibile, e soprattutto meglio inserito nelle vie commerciali terrestri e non sfavorito nelle rotte marittime, grazie allo scalo di Baratti.
In pratica, etruschi e romani capirono meglio dei moderni (con l'improvvida scelta di Portoferraio nell'impiantare un impianto siderurgico, agli inizi del Novecento) che una località del continente era la scelta più ovvia per questo tipo di attività.
Ma allora la tesi di una distruzione del patrimonio boschivo è totalmente da rigettare? Forse no. Ma potrebbe essere stata addebitata agli antichi, mentre andava meglio cercata nei moderni. Più segnatamente al Medioevo.
Nel 1234 un documento ci attesta l'acquisto di un terreno selvoso a Viticcio da parte di un fabbro di nome Giulio. Il cedente era il capitano e anziano di Montemarsale Lotteringo. La carta testimonia bene quanto era necessario per chi gestiva un impianto siderurgico avere un abbondante riserva di legname per i forni. Ma questo era al contempo un pericolo per il patrimonio boschivo dell'isola.
In un decreto degli anziani di Pisa del 1380 troviamo l'ordine al comune di Capoliveri di salvaguardare il bosco di leccio del Gualdo, poco sotto il paese, da un taglio che non fosse connesso alle necessità dei massari locali. Nessuno inoltre doveva far fuoco vicino a esso, e farvi pascolare bestie piccole o grosse che fossero. Si dava ordine al podestà e agli ufficiali di Capoliveri di eleggere due bargelli e guardie segrete per denunciare i trasgressori a queste norme, e a quelle inerenti il pascolo delle bestie e la purezza delle acque.
Secondo Fortunato Pintor questa delibera era strettamente connessa anche con l'attività fusoria del ferro. Essa viene infatti letta – soprattutto nella proibizione di cedere “aliquod lignum de leccio pro comburendo vel alia causa” – come un divieto di taglio indiscriminato in alcuni boschi isolani, da parte dei carbonai che ricavavano combustibile per i forni fusori. A questo proposito Corretti rileva una cosa interessante: “Dai documenti in nostro possesso, del resto, l'Elba appare percorsa da funzionari pisani incaricati di riscuotere annosi debiti contratti dalle varie comunità; ci si chiede se per questo motivo non abbia avuto luogo un progressivo trasferimento delle risorse boschive dalle comunità o dai privati dell'Elba ai fabbri esterni, pisani e non”.
Il problema si poneva anche (e forse soprattutto) a Rio e Grassera. Come abbiamo visto, negli statuti del primo comune si proibiva di “infocare, ne debbiare, ne tagliare legna” nei boschi vicini le miniere, se non per usarla per opere di contenimento delle cave stesse, e presumibilmente come armatura delle gallerie. La legna poteva inoltre essere utilizzata solo dagli ufficiali pisani e dai padroni delle barche, quindi sempre nell'ottica dell'indotto delle miniere.
Anche a Rio fu proibito il pascolo degli animali, imponendo bandite comunali, nella valle di Riale e molto probabilmente in quella oggi detta dell'Acqua Riese, sul versante di Ottone. Inoltre i proprietari di terreni boscosi potevano tagliare legna, ma era espressamente vietato venderla fuori dal comune.
Che a un certo punto si facesse pressante la necessità di preservare il patrimonio boschivo isolano è indubbio. Fosse perché i fabbri stavano abusando dei diritti o privilegi nell'uso delle materie prime, o perché andava nascendo, come ipotizza Corretti, una conflittualità tra uso agricolo e uso boschivo del suolo, i comuni elbani cercarono di ristabilire un equilibrio tra le due istanze, considerando anche che quella agricola era forse più sentita dalla popolazione locale, in quanto da ciò che si poteva ricavare dal bosco (legna per vari usi, ghiande per alcuni animali d'allevamento, castagne, etc.) molti traevano sostentamento.
Questi segnali paiono significativi. Tutti gli indicatori mostrano che per l'attività metallurgica elbana il XIII secolo è il periodo d'oro, mentre inizia il declino in quello successivo. È quindi possibile che in questa crisi pesi molto il depauperamento del patrimonio boschivo dell'isola, e quindi una carenza di legname per i forni. È indubbio che l'intensa attività fusoria medievale debba aver intaccato non poco il patrimonio boschivo dell'isola, ma se le tesi avanzate dagli studiosi fossero giuste si dovrebbe parlare più di spoliazione pressoché sistematica del suolo isolano, tanto da dover intervenire per legge.
Tuttavia per la crisi metallurgica del XIV secolo potrebbero entrare in gioco altri fattori. Il primo è il sempre più massiccio utilizzo nella Toscana continentale di forni con mantici alimentati dalla forza idraulica, dalla resa decisamente migliore di quelli ad azione manuale. All'Elba i fossi non erano di portata sufficiente per assicurare una buona resa idraulica. Infatti Corretti rileva che proprio in connessione con questa miglioria l'attività fusoria isolana entra in crisi. Il secondo fattore potrebbe essere un radicale cambio di indirizzo economico per le miniere: in questa fase infatti Pisa abbandona la politica di protezionismo verso i fabbri, mentre emerge un'imprenditorialità pisano-genovese fortemente interessata all'esportazione del minerale grezzo.
È importante però rilevare una cosa importante. In ogni epoca prevale, a un certo punto, l'importanza di salvare l'ambiente che ci circonda. Non per ragioni ecologiche, dato che in passato l'ecologia era un concetto senza senso. Solo per ragioni economiche e produttive. Ma in ogni caso gli elbani si resero conto che le risorse dell'isola erano fragilissime e limitate. Diventava quindi vitale non andare oltre i limiti. Dovremmo impararlo anche oggi, che le minacce all'ambiente le portiamo con un insensato consumo del suolo. Troppo spesso permanente, e quindi difficilmente reversibile.
E magari facciamoci un pensierino anche per quell'isoletta verde e blu persa nell'universo, che è il nostro pianeta, la nostra unica casa.
Andrea Galassi
ps Bibliografico
- Gli studi di Alessando Corretti sulla metallurgia antica e medievale sono disponibili su academia.edu. Segnalo particolarmente quello che analizza il primo nome dell'isola, Aethalia, proponendo l'interessante tesi secondo cui il toponimo non faccia riferimento alla fuliggine dei forni fusori, come spesso si ritiene, ma al color fuliggine delle coste orientali, di quella rotta cruciale nell'alto Tirreno, quale il canale di Piombino, che colpirono i navigatori egei, tanto da prenderle come riferimento.
Ottimi contributi sulle attività produttive e il paesaggio dell'isola nei tempi antichi sono anche di Franco Cambi e Laura Pagliantini, alcuni disponibili online. Segnalo soprattutto questo:
https://www.milliarium.it/pdf/n11_paesaggi_antichi.pdf
Le tesi di Michelangelo Zecchini sono esposte in diversi libri. Ma qui segnalo il più completo “Isola d'Elba Le origini”, Lucca 2001.
A proposito delle ricerche di Gino Brambilla il testo di riferimento è “Le impronte degli antichi abitatori dell'Elba”, Pavia 2003.