GianMario Gentini ripropone sulle vivaci pagine Facebook del Circolo Sanpierese "Le Macinelle" la lettura di Mario Foresi della "Leggenda dell'Innamorata".
Un racconto che negli anni ha dato origine tra l'altro anche a rievocazioni e reinterpretazioni folcloristiche, ed eventi che hanno riscosso notevole successo.
LA CALA DELL’INNAMORATA
in La leggenda di Albarosa, 1901
Nel termidoro del 1802, sull’imbrunire del terzo dì del novilunio, Drea Pisani in piedi dentro una lancia forzava la voga per arrenare sulla spiaggia del golfo di Campo nell’Elba. Infatti con l’ultimo colpo di remo infisse il tagliamare nella ghiaia minuta del lito. Guardò attorno, e non vedendo alcuno, si assise pensoso come aspettando.
Intanto la Maria scendeva col suo passo di gazzella per la strada che serpeggiava fra i massi di granito tormalinifero, sotto il castello di San Piero.
Una delle solite storie: c’è da immaginarla. I due giovani si volevan bene fin da ragazzi, malgrado i babbi che, vecchi pescatori smessi, si mantenevano reciprocamente l’antico odio di mestiere.
Fra i paesani era orami proverbiale l’amore della fanciulla, tanto che per distinguerla dalle cento altre Marie, Mariette, Mariucce, e per averlo ella soffuso nel volto il sentimento dolcissimo che nutriva nel cuore, solevan chiamarla l’Innamorata.
E in quel momento le cose degli amanti erano giunte a tal segno da costringerli a fuggire quasi improvvisamente.
Audace cosa la fuga per i contadini isolani, in tempi nei quali il continente era così paurosamente lontano per loro! Affrontare i pericoli della traversata, le incertezze di una terra ignota, di una landa luttuosa e inospitale che chiamavasi Maremma, per giungere poi dove? Oh era terribile! ma bisognava lasciar l’Isola.
L’innamorata fece appena in tempo per infilar la porta del castello che, a una cert’ora, saliti e ritirati in casa tutti i paesani dalle spiagge e dai campi, usavasi chiudere e sbarrare, per timor dei corsari onde il mare ed i liti non erano ancor sicuri. Ella sentì il romore dei grossi chiavistelli dietro di sé, e si affrettò di corsa, al fievole lume della luna nuova, già lassù.
-Sei tu?- Chiese il Pisani, levandosi al fruscio che sentì sulle alighe morte.
-Son io, sì.
Non dissero altro. La fanciulla saltò sulla prua, e nell’andare a poppa passando dalla traversa di mezzo, si soffermò un attimo e si attaccò al collo del giovane premendo forte sul petto di lui, quasi per attingervi coraggio. Poi si assise affannosa, ravvolte le spalle con pel freddo, mentre sudava dalla corsa. Lui, si pontò col remo e staccò la barca rattenendo un sospiro, abbracciando con un’occhiata la terra dei suoi.
Ne avevan tanto parlato di quella fuga, ci si erano così preparati, che nel momento solenne, commossi e assorbiti dal fatto, non si sentivano di articolar parola. Fra il
batter dei remi udivasi soltanto il gorgoglio che veniva su dall’acqua rotta contro la prua, simigliante a un tumulo di voci, le quali tante cose dicessero a un tempo:
incoraggiamenti, promesse, rimproveri, minacce, chi sa?
-T’ha visto alcuno? -Domandò il giovane più tardi, quando furono al largo.
-Nessuno: babbo era già a letto e la mamma a vegliar la Checca - soggiunse l’altra; e si asciugò gli occhi col rovescio della mano.
Drea Pisani volse la faccia verso ponente per interrogare il tempo. Una folata fresca e leggiera di maestrale, che parea prometter ben, gli accarezzò la faccia.
Tosto che il corno della luna scomparve dietro i gioghi del monte Capanna, essi erano già fuori, ma sempre lungheggianti le meravigliose scogliere della grotta del Vescovo.
Quei massi enormi di granito e tufo, ora bruni ora chiari, parevano fantasmi nell’ombra; e poi l’acqua dava loro certi gemiti, certi singulti, certi rantoli umani che facevano trasalire.
Ma presto furono dinanzi alla punta di Fonza, sempre muti: lui ondoleggiando col torso sui giglioni, gli occhi nella barca; lei, attraverso le lacrime fissando con fervore le stelle scintillanti, le quali su nella volta serena le pareano tanti occhi del Signore.
Attraversavano il golfo di Lacona quando nell’immensità silenziosa udirono sordamente echeggiare una detonazione. Poi un’altra. Poi un’altra più forte.
Trasalirono.
Vergine santa!- gridò la ragazza voltandosi indietro - che sarà mai?
Il Pisani guardò dinanzi a sé nello spazio, attonito; ma scosse leggermente la spalla.
Pel mare non si vedeva niente altro che le coste di Fonza allontanarsi, e di tratto in tratto il faro della Pianosa sprazzare nell’orizzonte oscuro il suo fulgore 14 intermittente.
Intanto il maestrale era rinforzato, ma pur sempre giusto, mite, unito.
Al capo Sant’Andrea un legno di corsari da alcune ore inseguente una cannoniera che, donata dalla regina d’Etruria al recente Imperatore, veleggiava verso Portoferraio, giunto a tiro, forse scambiandola per un legno mercantile, sparò due volte. Le palle fischiarono vane fra le sartie; ma la cannoniera stava in guardia, e tuttoché non ben munita, ma carica di soldati francesi comandati dal capitano Hugo, il padre del poeta, tutti decisi a vender cara la lor vita, assestò un sì valido colpo nel legno nemico, e tante furono le grida e tale il balenar dei moschetti agli ultimi raggi della luna, che i corsari volsero rapidamente la prua verso levante, dando tutte le vele al maestrale.
La lancia avea già da un pezzo passato il capo Stella, allorché alla Maria che ogni pochino esplorava sospettosamente dietro a sé, parve scorgere, laggiù qualche cosa di nero: un barco di certo.
-Guarda- disse al Pisani indicando.
Questi alzò le pale dei remi, e aguzzò la vista nella incerta luminosità del mare.
E’ un barco- riprese. Poi tornò a vogare; ma il cuore gli batteva forte.
Infatti, era il legno dei corsari che appariva, avvicinando, avvicinando sempre. Quel venticello doveva spingerlo bene.
In breve si udì anche le voci a bordo e si vide il lume. L’Innamorata si alzò da poppa come per rifugiarsi nelle braccia di Drea Pisani; ma egli le disse, fissandola dolorosamente:
- Animo, per carità! Tu sai, Maria, che il nostro non è un viaggio di diletto: i pericoli erano preveduti. Ricordati: avevamo divisato di ucciderci; poi, quando prescegliemmo la fuga, pensando alle lotte e ai pericoli, noi dicemmo: Tanto è, sarà un modo come un altro per incontrare la morte.
Ella tornò sospirosa a sedersi.
Oh era senza dubbio un legno di mal gente, perché adesso le voci si lasciavano distinguere! Doppiava anch’esso il capo Stella, e con la prua rivolta verso loro, e
l’ansia dei due meschini era atroce. Più tardi, le vele minori furono chiuse fino a quella di trinchetto, sicché la velocità del barco diminuì. Senza dubbio adesso la sua
meta era la lancia.
Madido di sudor ghiaccio, Drea Pisani vogava sempre, ma così, automaticamente, senza forza. Fissava con occhio stupido ora la ragazza, ora la prua del barco che stava per raggiungerli, e le teste che già si scorgevano del bordo, nere contro la luminosità del cielo scintillante di stelle. Una voce che gridava sulle altre in vernacolo siciliano:
-Cura a fimmina! Sta cura la fimmina!- gli fece così sussultare il cuore che appena potea respirare.
L’Innamorata, muta, immobile, con le mani aggrappate alla poppa, rivota addietro verso il mostro che stava per fracassare la lor piccola chiglia guardava, guardava, quasi atterrita dal rombo della prua squarciante i marosi, dal tumulto della ciurma, dall’onde vivamente sommosse.
Tosto che il bompresso fu al di sopra della lor testa, tosto che l’enorme carena come un cetaceo nero e formidabile fu per investirli, Drea Pisani macchinalmente forzò l’un remo e si scansò. Poi, levandosi in piedi, puntò le mani contro il fianco dello scafo che sopraggiungeva strisciando loro daccanto.
E subito, due aste uncinate, aggrappandosi dal bordo superiore all’estremità della lancia, la trascinarono al pari.
La Maria si era levata anch’essa, affannosa, costernata; e con le palme giunte verso la gente del bastimento cercava invano di articolare una preghiera, in quella confusione improvvisa, soffocante, quando quattro braccia poderose si protesero, l’afferrarono violentemente sotto le ascelle per trarla sopra.
Ma l’atto di Drea Pisani fu di una rapidità vertiginosa. Pensieri atroci gli attraversarono la mente; la schiavitù, la ciurma brutale; e il sangue gli avvampava la faccia. Saltò la traversa, traendo il suo largo coltello di tasca, e avvinghiata col sinistro braccio disperatamente la fanciulla sospesa, che stava per sfuggirgli per sempre, quasi sentendosi egli stesso alzar su con lei, le vibrò un colpo nel cuore.
Essa mandò un grido acuto che superò quel brusio: era tutto il fiato che da tanto tempo non voleva uscire di gola. Nello stesso momento un fendente calò sì forte dal bordo sulla testa di Drea Pisani, che le sue mani si aprirono senza ritirare il coltello, ed egli piombò giù, accasciato su sé stesso, le gambe nel fondo della lancia, le braccia e la testa grondante rovesciate nell’acqua.
L’aste uncinate si levarono e la piccola barca fu libera.
Issata a bordo la fanciulla fu distesa sulla coverta e una dozzina di facce le si affollarono sopra, cupide, sinistre in quella luce scialba dei fanali.
A una parola del capo però tutti si scostarono, ed egli stesso, piegandosi alla sua volta sulla ragazza che pareva svenuta, sorrise alla gentile bellezza del viso pallido, adombrato di ricci; poi, percorrendo il corpo, scorse fra le vesti il manico del coltello confitto.
Lo afferrò e lo cavò fuori, eruttando una violenta bestemmia. Il sangue sgorgò sull’intavolato, e l’Innamorata riaprì gli occhi un momento, sussultò, mosse le labbra come per dir qualcosa; poi tornò immobile, composta, assopita per sempre.
-Ah! Malidittu iddu! - urlò il capo deluso. E tolto il moschetto dalle mani di un uomo, ne alzò il cane, si affacciò fra il cordame spianando la canna verso la lancia che restata indietro si dondolava fosoforeggiado sulla maretta del maestrale, ed esplose rabbiosamente.
Ma perché fare? Egli tirava su un cadavere.
Gli altri manigoldi tornarono a precipitarsi sul corpo della fanciulla; poi, dopo un poco, alzandola sul parapetto, gridarono ad una voce:
-Poco danno, capitano, poco danno!
E lanciarono il cadavere nell’acqua.
Si udì un comando; le vele tornarono ad aprirsi, e la prua si volse al largo, schiumando.
A tramontana delle miniere della Calamita giace una spiaggia dalla curva elegante, onde si stacca nel mare un lungo ponte di legno che serve a caricare il ferro ivi trasportato per vie di terra, quando i tempi impediscono di ancorarsi dinanzi alle Cave.
Quivi, alla seconda alba dopo la funebre notte, un drappello di cavatori scendeva al lito per varare un barcone e recarsi costeggiando, come di consueto, al lavoro.
Sulla ghiaia fiottavano i marosi stracchi di ponente, ma al largo c’era bonaccia; le paranze invelate strisciavano staccando scuro su bagliore crepuscolare di un cielo limpidissimo.
Già gli operai afferravano gli scarmi della barca giacente sull’alighe, quando l’un d’essi accennò d’improvviso verso l’estremità della cala a una massa tratta e sospinta dalla battigia: era un corpo umano, senza dubbio, lo si vedeva bene. Infatti tutti accorsero laggiù, e tirarono a terra un cadavere di donna.
-Sant’Andrea benedetto!- gridò un Campese che lavorava da due settimane alla Calamita, curvandosi commosso sulla faccia livida della morta e battendosi la fronte con la palma -che vedo mai?... L’Innamorata!
La deposero a piè di certe agavi, mentre dattorno fra tutti quegli uomini era un domandarsi, un supporre, un dedurre, un tumultuare...
Intanto, chi andò a Capoliveri, chi alle Cave, che alle case; sicché più tardi la spiaggia affollò di gente.
E la prima sera il corpo della povera Maria fu pietosamente riportato a Campo, a spalle, per lunga via di rupi faticose onde l’isola è così aspra tutta e selvaggia.
L’avvenimento si diffuse a poco a poco; la storia, la fuga e la morte de’ due amanti fu in cento guise tessuta. Però niuno pose mente ai corsari, nemmeno in Portoferraio, dove i soldati della cannoniera avevan suscitata tanta diceria col racconto del loro scontro navale.
A quella spiaggia, massime i campesi, peregrinavan molti isolani; e molte barche, passandole innanzi, accennavano. E fin da allora la chiamarono tutti la Cala dell’Innamorata.
Mario Foresi