Per ricordare una delle più luttuose pagine della storia della nostra comunità riproponiamo ai nostri lettori, assieme alle immagini della (troppo poco partecipata) celebrazione ufficiale odierna, del martirio che le bombe tedesche imposero alla città, un bello scritto di Maria Gisella Catuogno pubblicato da Elbareport undici anni fa.
E' un racconto crudo che parla anche degli otto giorni - tanto poco durò - della Resistenza Elbana.
Ma non tutti gli isolani piegarono la testa di fronte ai nazisti ed ai loro locali complici fascisti.
Al di là dei "dovuti omaggi", la storia di quelle atrocità guerresche andrebbe sistematicamente trasmessa ai giovani, per instillare in loro ed accrescere la cultura della Pace, l'unica che salvaguarda la dignità degli esseri umani.
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Quel 16 settembre 1943 a Portoferraio
Nella vita di una comunità esistono date che non possono passare sotto silenzio né possono esaurirsi in una cerimonia pubblica: una di queste a Portoferraio e in tutta l’Isola deve essere il 16 settembre 1943. Di quel giorno, come di tutto quel tragico mese, si dovrebbe parlare a scuola e in tutte le case elbane perché la memoria è indispensabile per dare senso al presente e saperlo decifrare; per essere capaci di leggere un contesto architettonico e rispettarlo; per conservare il patrimonio dei ricordi personali e collettivi e trasmetterlo alle giovani generazioni.
Esattamente settant’anni fa (oggi ottantuno NDR), infatti, Portoferraio subisce un pesante bombardamento tedesco, che prepara l’occupazione e il durissimo inverno del 1944.
Dopo l’8 settembre e l’armistizio, il presidio isolano non si è arreso all’ex alleato diventato nemico e continua la resistenza. Da qui la tragica risposta tedesca.
“Nella tarda mattinata del sedici settembre – il sole già alto, le donne alla ricerca di qualcosa da mettere in tavola, per il consueto, frugale pasto quotidiano- dal cielo piove l’inferno. Sette stukas vomitano sulla città grappoli di bombe che esplodono ovunque, spazzando via in un attimo, come un uragano devastante, progetti, speranze, timori, preoccupazioni, odi, amori, rancori e affetti: annientano tutto quello che si oppone alla loro cieca furia, sazie soltanto quando lasciano sulla piazza, per le vie, sulla soglia di casa, un centinaio di vite, fra i civili, e qualche altra diecina tra i militari, oltre a macerie, abitazioni sventrate, edifici pubblici completamente distrutti, chiese e cimiteri danneggiati, e la polvere che s’alza come un sudario sui morti e sui vivi disperati, senza più fiato da gridare e lacrime da piangere. Oltre alle bombe, sono piovuti manifestini che minacciano nuova morte dal cielo, se entro le quattro del pomeriggio non perviene al Comando germanico di Piombino la dichiarazione di resa.
La batteria delle Grotte ha inutilmente tentato di reagire all’incursione, la fionda di Davide contro la tempia di Golia. Ma questa volta Golia vince: la batteria è inesorabilmente attaccata e distrutta.
La resa è inevitabile. La sera che cala non attutisce il pianto, più di cento famiglie sono in lutto.
Il giorno dopo, un battaglione della seconda divisione paracadutisti, trasportato da una squadriglia di Junkers Ju. 52, proveniente dall’aeroporto di Ciampino, viene lanciato sulla costa settentrionale dell’Elba, nella campagna intorno Portoferraio. Gli immensi ombrelli che si aprono sopra la piana di San Giovanni, a poca distanza dalle saline, dalle case, dalle stalle dei contadini, appaiono agli elbani ancora terrorizzati dal bombardamento del giorno prima, immensi, mortiferi fiori maligni.
Poco dopo, i tedeschi arrivano anche dal mare.
Con estrema rapidità vengono ultimate le azioni di rastrellamento dei militari italiani e di occupazione delle caserme. Il comandante Gilardi è catturato insieme a quasi tutti i suoi ufficiali e tradotto in Germania dove viene sottoposto a processo e rinchiuso in un lager: tra le accuse che gli vengono mosse, c’è anche quella di non aver mostrato, con la sua ostinazione, abbastanza sensibilità nei confronti della popolazione civile e del capoluogo elbano. E’ l’inizio dell’occupazione tedesca dell’isola, destinata a durare nove lunghi mesi, e a risolversi in maniera non certo meno traumatica, per le modalità con cui avverrà la liberazione.
La resistenza elbana è durata otto giorni: il presidio ha mantenuto coesione interna e capacità operativa più di ogni altra unità del nostro esercito sul suolo nazionale.
Il quel convulso settembre del 1943, appena cinque giorni dopo l’occupazione tedesca, un’altra tremenda sciagura si abbatte sull’Elba. La gente non ha ancora rialzato la testa dagli ultimi tragici avvenimenti, l’uva è ancora da vendemmiare e l’estate agli sgoccioli, quando viene affondato, mentre sta tornando da Piombino con trecento persone a bordo, ormai vicino alla rada di Portoferraio, il piroscafo “Andrea Sgarallino”.
Il piroscafo è stato silurato da un sommergibile inglese, che ha lasciato il porto di Malta una settimana prima, per una missione nelle nostre acque. Lo Sgarallino è stato considerato un naviglio ausiliario al servizio dei tedeschi, malgrado il comandante appartenesse alla Marina Militare italiana e il primo ufficiale fosse un elbano militarizzato. Il comando era dunque italiano e a bordo c’erano soltanto alcuni soldati tedeschi per il controllo dei passeggeri.
Il dolore, la disperazione, la commozione si spargono per l’Elba: tutti hanno qualcuno da piangere: parenti, amici o conoscenti.”
da Maria Gisella Catuogno “Tempo di guerra voglia di pace” Aletti Editore