Dopo la segnalazione del tratto di decauville dei Macei, riportato alla luce da una frana, mi hanno chiesto informazioni sulle ferrovie presenti in passato all'Elba. È in effetti una storia molto interessante, che ho studiato. Pochi lo sanno, ma per buona parte della prima metà del Novecento le aree minerarie isolane furono coperte da una rete ferroviaria a scartamento ridotto che, come vedremo, raggiunse un chilometraggio consistente per un'area così piccola.
Anche nel resto dell'isola erano presenti tratti di decauville, parimente di carattere industriale, ma di modeste lunghezze. Il caso più interessante è quello delle ferrovie all'interno degli altiforni di Portoferraio. Anche l'Elba occidentale ha conosciuto piccoli tratti ferroviari: per esempio a Sant'Andrea, dove negli anni '30 fu realizzata una breve decauville per trasportare gli schiumoli delle antiche fusioni dei minerali ferrosi della zona, tramite carrelli spinti a forza umana, verso il molo tuttora esistente, e imbarcarli per le acciaierie di Piombino.
Il primo progetto di ferrovia all'Elba è del 1859, quando l'ingegner Auguste Ponsard, nell'aprire un pozzo verticale nella miniera di Rio Marina, dotò la galleria di fondo, quella che doveva consentire il trasporto del minerale dal pozzo alla laveria, di una strada ferrata. Non sappiamo se fosse realizzata, ma certo dovette essere piuttosto corta.
Contestualmente alla costruzione del patouillet (la laveria di concezione moderna della miniera di Rio Marina, che gli operai familizzeranno col nome di “pattugliè”), nel 1862, fu impiantata quella che viene generalmente considerata la prima ferrovia in una miniera isolana. Era a scartamento ridotto, ma pare che le rotaie, semplici profilati a L, consumassero velocemente le ruote dei carrelli. Tanto che nel 1874 dovettero essere sostituite con il tipo tradizionale, che da allora sarà sempre usato. Intorno allo stesso 1874 fu costruito un secondo tratto, di mezzo chilometro, per portare le gettate, passate dalla laveria, dal cantiere della Polveriera a quello di Vigneria. Successivamente fu aperto un altro tratto al cantiere del Giove. Su tutte queste prime strade ferrate correvano vagoncini di tipo decauville e la trazione era animale. L'uso di cavalli era infatti molto più efficace per tratti così brevi di ferrovia, riduceva la resistenza di attrito e andava bene per ogni condizione metereologica, forse perché in caso di dislivello le ruote di un locomotore sarebbero slittate sui binari bagnati.
Tra il 1899 e i primissimi mesi del nuovo secolo, nel periodo in cui venivano costruiti gli altiforni di Portoferraio, la società Elba progettò di dotare di binari le miniere di Rio Marina e Calamita. La prima prevedeva un tratto tra il cantiere del Giove e il porto di Rio Marina, la seconda doveva collegare la miniera con il pontile dell'Innamorata. È in questo momento che si inizia a parlare di una trazione a vapore per le locomotive. Ma per questo occorrerà attendere ancora qualche anno. Il primo progetto fu realizzato nel 1905, a Rio Marina: fu costruita una nuova ferrovia di tre chilometri, dal cantiere Zuccoletto al pontile del Portello, sulle pendici sud-orientali di Torre del Giove. Ma era ancora una distanza troppo breve per la trazione a vapore. Così i convogli di circa dieci vagoni erano ancora trainati da cavalli. Ma quando nel 1909 il ramo fu allungato di altri cinque chilometri, la miniera riese conobbe il primo locomotore, un Orestein et Koppel da 30 cavalli.
A Calamita i lavori per la ferrovia iniziarono nel 1909, e il 7 luglio 1912 la strada ferrata fu inaugurata. Anch'essa fu dotata di una locomotiva a vapore Orenstein et Koppel da 25 cavalli. La strada ferrata congiungeva il pontile dell'Innamorata con la miniera, alle Piane di Calamita, ovvero presso il cantiere del Vallone Alto, a 160 metri di quota. Da qui si diramavano due tronchi, per i cantieri del Polveraio Basso (a cui probabilmente fa riferimento il tratto riportato in luce dalla frana) e delle Francesche, con una distanza totale di circa sei chilometri.
Si trattava di una strada ferrata a scartamento ridotto, della larghezza di 60 centimetri. Il tratto dalle Piane all'Innamorata, di circa tre chilometri, correva in leggera discesa, con un dislivello di circa 130 metri e una pendenza di circa l'1,6%. Questo permetteva al convoglio di procedere per semplice abbrivio all'andata e a pieno carico, e sfruttando la forza motrice solo al ritorno, con i vagoni vuoti. Attraversava il fosso del Salcio, su un bel ponte in pietra ancora esistente, costruito nel 1898, come ancora oggi si legge sull'arcata. Passava poi l'attuale gruppo di case del Calone, per scaricare i vagoncini sulle grosse tramogge, che dominano ancora, sebbene abbandonate, la punta della Ciarpa. Il percorso, a parte un centinaio di metri inglobati nella strada asfaltata del Calone, è oggi un bellissimo sentiero panoramico in mezzo alla macchia bassa.
Non fu una lavoro facile, dovendo far correre i binari su una costa alta e frastagliata e all'interno di una valle, comportando anche alcune curve piuttosto accentuate. Inoltre, è probabilmente in questa fase che verrà scavato il “canyon” del Trincerone, tutt'oggi uno degli angoli più caratteristici della miniera di Calamita, che permetteva di scavallare dalle Piane al cantiere del Vallone Alto, e quindi ai Macei, superando un aspro crinale con un profondo taglio nella roccia.
Nel 1921, ovvero il periodo in cui la rete ferroviaria delle miniere isolane raggiunse il suo massimo sviluppo, si contano ben 26 chilometri di strade ferrate nella sola miniera riomarinese, e 15 tra quella di Rio Albano e Ortano. Non abbiamo dati sulle miniere capoliveresi, ma molto probabilmente non siamo lontani dallo stimare lo sviluppo totale elbano in oltre 50 chilometri di binari.
Dei 26 chilometri della miniera di Rio Marina, sappiamo che solo 8,5 erano serviti da locomotive. Questo farebbe presumere che per molto tempo non cessasse l'uso dei cavalli per il traino dei vagoncini, almeno per tratti brevi. Va anche detto che per brevissimi tratti i vagoncini venivano ancora spinti a braccia dai cavatori per gran parte della prima metà del Novecento. In ogni caso l'introduzione dei locomotori portò a convogli ben più articolati, con trasporti di grosse quantità di minerale verso il punto d'imbarco in tempi decisamente brevi. Adriano Betti Carboncini riporta che dal 1909 al 1940 furono attivi nelle miniere isolane 12 locomotori a vapore, tutti di marca tedesca: 5 Borsig da 30 cavalli (due dal 1910 e tre dal 1912), 4 Orenstein et Koppel da 30 cavalli (tre dal 1909 e uno dal 1940), 2 Henschel da 20 cavalli (dal 1923) e uno Arnol Jung (dal 1924). Giulio Pullè però afferma che nel 1921 le Orenstein et Koppel fossero da 25 e 35 cavalli.
Nel 1930 fecero la comparsa nelle miniere isolane anche dei piccoli automotori a benzina. Ma è nel 1943 che entrano in funzione motrici a gasolio, molto più efficienti e di più semplice manutenzione, che infatti manderanno in pensione quelle a vapore. Ma sembrerebbero essere ancora presenti alcuni tratti a trazione animale. Oltre che più potenti e in grado di trainare alcuni grossi vagoni (anche più del doppio dei vagoncini tradizionalmente spinti da animali), le locomotive diesel potevano essere manovrate in sicurezza e anche in condizioni atmosferiche difficili, grazie al tettuccio, da un solo operaio. Resti di queste locomotive sono ancora oggi esposte soprattutto nella miniera di Rio Marina. Le ultime sei macchine a vapore cessarono il loro servizio il 14 settembre 1943. Sembra che una di esse, dismessa nel 1936, fosse fino a non molti anni fa ancora presente al cantiere Rosseto.
Con l'entrata in funzione delle strade ferrate fecero la comparsa due nuove figure professionali: il macchinista, che guidava i locomotori, e lo stradino. Questi doveva aprire, a forza di piccone, il tracciato della ferrovia; quindi posizionava le traversine, di solito alla distanza di un metro l'una dall'altra. Sembra che raramente si usassero traversine in legno, in quanto per binari di tipo decauville erano molto più maneggevoli quelle in metallo.
Sulle traversine venivano inchiodati i pezzi di binario, ovviamente in doppia fila, della larghezza normalmente di 60 centimetri tra una fila e l'altra. “Le rotaie venivano inchiodate alle traversine”, scrive Filippo Boreali, “dopo aver fatto con la 'verina' dei fori al limite della base della rotaia e inserendo degli appositi chiodi”. L'operazione più complicata era la costruzione degli scambi: che richiedeva stradini particolarmente capaci, che “tagliavano le rotaie con un tagliolo, battendoci sopra con forti colpi di mazza e facendo i fori sulle testate con un punzone, mentre le piegavano con un rudimentale piega-rotaie manovrato a mano con una leva”.
Le ferrovie furono dismesse nel dopoguerra, quando il trasporto del minerale ai punti d'imbarco fu effettuato con camions e, per i tratti più brevi, da nastri trasportatori. Fino alla fine dei lavori, rimasero solo le ferrovie all'interno delle gallerie, come quella del Ginevro, attiva fino al 1980. Ma si trattava comunque di brevi tratti, sufficienti a portare il minerale al nastro trasportatore o al punto di carico esterno. Su ruota gommata infatti i trasporti furono molto più veloci ed efficaci: in poche ore potevano essere aperte strade, con le ruspe, permettendo il collegamento con ogni fronte di scavo. Il reticolo di queste strade, molte ormai abbandonate e ridotte a sentieri, se non ormai del tutto inaccessibili, caratterizza il paesaggio minerario delle cave. Adesso è difficilissimo vedere qualche lacerto di rotaia, in quanto quasi tutte furono smontate e talvolta usate come traversine per lavori edili. Tuttora visibili sono invece le ferrovie in galleria.
Andrea Galassi
Foto di Roberto Ridi