Il catcalling è un fenomeno che socialmente si perde nella notte dei tempi. Rientra oggi nel dibattito pubblico relativo alle problematiche di genere. A darci il suo punto di vista, motivato da lunga esperienza nel settore, Alice Mancini, operatrice del Centro Giovani di Portoferraio, operatrice anti-violenza, esperta in sociologia e management del servizio sociale e arte-terapeuta.
Denominato con termine inglese, il catcalling non è altro che la molestia sulla strada e nei fatti pubblici. Letteralmente è “il richiamo del gatto”, spesso derubricato e sminuito nella sua gravità come un semplice apprezzamento o un complimento. In strada, su un treno, al bar, è un fatto che tutti conosciamo bene: comportamenti come apprezzamenti non desiderati, fischi, risatine sarcastiche, gli occhi addosso, ammiccamenti, battutine. Caratteristiche principali sono l’invadenza, l’assenza di consenso da parte di chi li subisce, il fatto che non siano richiesti e, il più delle volte, fatti alle spalle. Spesso si tratta di commenti a sfondo sessuale o che fanno riferimento, anche in modo non esplicito, a determinate parti del corpo con connotazioni sessuali.
“Sottovalutare i nomi delle cose è l’errore peggiore di questo nostro tempo, che vive molte tragedie, ma soprattutto quella semantica, una tragedia etica”, così la definiva Michela Murgia in un’intervista; il suo libro si presenta infatti come un tentativo di disvelare il sessismo insito nel linguaggio comune, attraverso l’analisi di dieci espressioni che riflettono i meccanismi del potere maschile. Dare un nome preciso a qualcosa di profondamente radicato aiuta dunque a prenderne coscienza, a non ritenerlo più come qualcosa di innocuo. Serve a sfatare anche ciò che il catcalling non è: da alcuni ritenuto un semplice complimento, è invece tutt’altro. Questa nuova terminologia dunque è utile a riconoscere e individuare atteggiamenti inappropriati, identificabili come violenza, e dargli un valore legale.
Nel catcalling al molestatore non importa sedurre: vuole piuttosto un riconoscimento della propria mascolinità. Se si fa un commento non richiesto, questo é infatti altro dal gioco della seduzione che consiste invece in una complicità a due. Il catcalling è sempre agito da uomini, a riprova del fatto che esso rientra nell’esercizio di dominio che fa parte del contesto patriarcale e sessista in cui cresciamo. A questa logica appartiene anche l’idea di identificare la donna in base a delle singole parti corporee, non come intero. Il corpo femminile viene vivisezionato e trattato come oggetto, apprezzato o disprezzato. Oggettivare porta al paradosso di una libertà maschile non data e non richiesta contro una mancanza di libertà della donna: donne che anticipano un orario serale o notturno, che decidono di non indossare una gonna o un pantalone di certo tipo. L’uomo non vive su di sé questo senso di timore che va a minare la libertà di scelta.
È molto più facile rubricare come violenza qualcosa di manifesto e ben visibile ed emarginarlo a qualcuno: questo deresponsabilizza la maggior parte delle persone, facendo pensare “è lui, non posso essere io”. È giusto quindi inserire il catcalling, come tutte le altre violenze, nel contesto patriarcale e sessista in cui vengono attuate, in quanto non fanno altro che riaffermare le dinamiche di potere su cui si fondano la violenza e lo stupro. In questa disparità una donna, messa sempre nella condizione di subalternità, arriva anche ad avere timore di andare per strada, considerata come un oggetto a disposizione da apostrofare, ma anche da intimidire. Che si possa dire che la violenza di genere e la misoginia rappresentano un problema pubblico, non privato. Riguardano tutti, non solo chi le vive sulla propria pelle.
Un’altissima percentuale di donne ha vissuto il catcalling. Dobbiamo lottare quotidianamente per far sì che questi fenomeni scompaiano. Ciò può avvenire solo se donne e uomini iniziano a raccontare e a raccontarsi. Perché, come dice una storica frase femminista ripresa anche dai movimenti trans-femministi, “tutte le strade libere le fanno le donne che le attraversano”.
Di seguito la nostra intervista ad Alice Mancini
Quanto è importante definire il fenomeno con un preciso termine ai fini della sensibilizzazione sociale?
L’uso di un preciso termine è importantissimo e questo vale per ogni fenomeno. Le definizioni sono sempre importanti perché viviamo in un mondo logico fatto di parole in cui, se non esiste la parola per definire qualcosa, quel qualcosa non esiste. La definizione inoltre dev’essere univoca affinché non sia soggetta ad interpretazioni. Come per il catcalling e il gaslighting, tutte le denominazioni delle micro-forme di violenza sono importanti perché ci aiutano a riconoscerle poi nella realtà. Nel mondo utopico verso cui ci proiettiamo forse non ci sarà bisogno delle definizioni, ma ancora non siamo in quel tempo.
Ci spiega la differenza tra catcalling e sfera attrattiva del desiderio (che porterebbe a sminuire la portata del fenomeno)?
In “Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia” di Silvia Bonino, la psicologa e psicoterapeuta, con l'ausilio di approfondimenti sul piano biologico, esplora lo sviluppo della sessualità e dell'affettività, insieme ad alcuni aspetti della violenza e del genere. È possibile osservare una contraddizione intrinseca fra gli istinti violenti maschili e la subordinazione femminile, presenti talvolta nel mondo animale a cui apparteniamo, e l’opportunità di discostarsene, grazie agli strumenti che l’essere umano ha acquisito progredendo nell'evoluzione filogenetica. Questa contraddizione ci conduce a ricercare le cause primarie del fenomeno della violenza di genere non nella struttura naturale o nello sviluppo biologico della specie umana, né nel suo rapporto con la violenza, bensì indagando alcuni elementi costitutivi della società patriarcale che lo alimenta, e di determinati schemi relazionali. Non mi sorprende che un uomo che fa catcalling, alla domanda “perché lo hai fatto?”, risponda “non sono riuscito a trattenermi”. Tuttavia, la pura istintualità non può restare un’attenuante per fenomeni quali il catcalling, perché la biologia non la dimostra; altrimenti, non saremmo in grado di trattenerci neanche dal dire ad alta voce commenti ed opinioni in contesti inappropriati.
Il catcalling riguarda il dominio, la deumanizzazione della donna e l’affermazione di potere da parte dell’uomo, non una reale seduzione; è una questione sostenuta dalla cultura dello stupro che ha intriso la nostra società e le nostre educazioni, convincendoci spesso che questi commenti non richiesti siano qualcosa di positivo e non una strategia di controllo per ribadire chi può fare o dire qualcosa.
Personalmente, da donna prima ancora che da operatrice, come vivi questi comportamenti?
Non c’è nessuna persona socializzata come donna che non abbia vissuto discriminazione. Quando ci si approccia al femminismo si sente anche il problema delle altre. Ribellarsi a un catcalling è dunque un gesto di autodeterminazione, per noi stesse e anche per le altre, passando dal dire di essere contro all’agire quotidiano.
Come donna sono particolarmente privilegiata perché ho una mamma femminista in stile anni ‘70 e un babbo che è femminista senza saperlo. È stato dunque facile educarmi come donna che non sottostasse a dinamiche di sottomissione e, dalla mia parte, ho anche il mio temperamento determinato e combattivo. Mi sono poi scoperta queer: chi è queer parte prima, rispetto agli altri, con la propria destrutturazione, definendosi “non etero, non binario” etc … Questo mi ha facilitata nella riflessione su me stessa. Ho incontrato poi delle persone che mi hanno aperto gli occhi, ad esempio all’interno di un’associazione spagnola di Alicante con cui ho fatto una formazione di circo sugli stereotipi di genere. Approcciarmi ad una nuova visione del mondo attraverso la mia arte è stato davvero naturale, senza fare alcuna fatica. La fatica è invece arrivata quando poi ho deciso di studiare il tema. A quel punto mi sono resa conto che è un processo senza fine. Prima di tutto sto lavorando su di me e sulla mia decostruzione del genere, e so che è un lavoro infinito.
In che modo le associazioni s’inseriscono in questo dibattito tutelando le donne vittima di qualsiasi forma di violenza?
Il contributo delle associazioni è fondamentale, purché ci si attivi quotidianamente. Da un punto di vista storico, se non ci fossero stati i gruppi autogestiti dalle donne, che sono cominciati fra gli anni '60 e gli anni ‘70, non ci sarebbero stati neanche i centri antiviolenza. Il fatto che i centri antiviolenza siano organizzati come gruppi chiusi, il cui accesso è regolamentato, è legittimo e giusto: se dentro ci fossero uomini, come persone non formate sul tema, ciò potrebbe compromettere la buona riuscita del percorso antiviolenza perché le donne dentro relazioni violente hanno equilibri fragili e può bastare una parola messa fuori posto a compromettere il percorso.
Personalmente ritengo però che la base di partenza per il nuovo femminismo debba coinvolgere gli uomini, nel racconto e nella conversazione quotidiana sul genere, sul rapporto con loro stessi, con le donne e con gli altri uomini. È importante che ogni associazione, come ogni singolo, trovi la sua strada per fare attivismo e sensibilizzare sul tema. Può accadere che chi ha una certa sensibilità verso tali questioni, spesso si ritrovi come dentro una bolla, dove si è in accordo con le altre e con gli altri presenti, senza tener conto di chi c’è al di fuori. Invece per me è importante parlarne davvero con tutti. Per il resto, come sosteneva Michela Murgia, il patentino della femminista perfetta non esiste e nessuno/a ce l’ha… E non basta essere donna per essere femminista.
Qual è il contributo che possono dare gli uomini a questo dibattito?
Le donne vengono da almeno cinquant’anni di autoriflessione sul genere, mentre gli uomini purtroppo non hanno avuto - e non hanno - gli spazi per far questo. Il problema è specialmente nel maschile, nella fragilità che il maschile sta (ri)scoprendo di avere. Gli uomini non hanno fatto lo stesso lavoro di decostruzione e ricostruzione del proprio genere. Poiché il patriarcato ha ripercussioni diverse sugli uomini e sulle donne, donne e uomini devono cooperare in una riflessione che vada non solo oltre il genere e i suoi stereotipi, ma anche oltre ogni differenza di etnia, classe sociale, abilità e orientamenti. È quindi importante che anche gli uomini partecipino al dibattito e siano i primi a parlare fra loro e raccontarsi per riappropriarsi della propria sensibilità. Il problema col patriarcato ce l’hanno anche loro, come nel caso dei ragazzi, futuri uomini, che vedono come unico modello quello tossico del macho, senza vederne altri a cui aspirare. Trovo che sia adesso il momento per spronare gli uomini a creare degli spazi per ricostruirsi e per destrutturare quello che hanno imparato di rigido dal patriarcato, per capire quali altre forme possibili di maschile possano esistere.
Il catcalling ha a che fare anche con la logica del “te lo sei cercata”?
Quella del “te lo sei cercata” è una logica patriarcale: alla base c’è la sostanziale deresponsabilizzazione maschile; dietro operano la reificazione e la sessualizzazione del corpo femminile, ridotto a mero oggetto considerato nelle sue singole parti e non come un intero. Per fortuna, dagli anni ‘70 a ora il movimento di opposizione al patriarcato si è irrobustito: ciò spaventa chi si è accomodato nello status quo e nella rigidità dei ruoli, soprattutto quello del privilegio maschile.
Angela Anconetani Lioveri
Manuel Omar Triscari