Dire o decidere se all’Isola d’Elba ci siano state o meno la Resistenza e almeno un embrione di guerra partigiana non è affar mio. Non posso avere ricordi diretti, perché sono nato un po’ di tempo dopo; e i ricordi di famiglia parlano, tout court, di guerra, senza aggettivi specificativi. Parlano dello sbarco a Fonza del 17 giugno 1944; parlano del massacro di Procchio, della Portoferraio bombardata e distrutta, parlano dello Sgarallino e dell’occupazione. Sono ricordi mediati e parziali, a volte sorprendenti, contraddittori e, come si direbbe oggi, politicamente scorretti; è uno dei tanti motivi per cui non posso e non voglio essere definito uno storico. Casomai, un raccoglitore di storie orali approdato al presente da un passato morto, in cui dette storie si raccontavano a un ragazzo.
Una di queste storie riguarda, per l’appunto, un Partigiano. Elbano, o elbanese che dir si voglia; confesso candidamente che, tra sciambere varie e neologismi (o veterologismi) sergiorossiani che ho assorbito profondamente perché sono sempre stato una sorta di spugna linguistica quando essere spugna merita, mi garba immensamente inserirli nel mio tessuto discorrente e narrante, che è un po’ particolare e multiforme. Un Partigiano elbano, e non è stato l’unico; persone che sono salite su montagne che non somigliavani nemmeno un po’ al Capanne o al Monte Calanche. Oppure, che hanno combattuto in grandi città. Una di queste persone è morta non molti anni fa, esattamente il 16 ottobre 2009. Aveva ottantasei anni al momento del suo viaggio nel nulla.
Si chiamava Guglielmo Pacini, e vorrei subito sgombrare il campo da qualsiasi equivoco: non l'ho mai conosciuto. O meglio, non coscientemente. So che era nato a San Piero nel 1923, e magari, chissà, l’avrò anche visto, nella piazzetta della fontana o in Piazz' i' Chiesa sul muretto, a prendere il fresco e a chiacchierare. Ma non sapevo nemmeno che esistesse. Un vecchio come tanti. E, ovviamente, non conoscevo la sua storia; l'ho conosciuta, in modo del tutto casuale, raccontata a pezzi e bocconi e poi integrata da qualche notizia reperita qua e là. Con queste premesse, raccontarla diventa questione d'incoscienza pura; insomma, tutto quel che mi attiene. Chi racconta storie, sia pure alla bell'e meglio come il sottoscritto, ha sempre presente una cosa fondamentale: è la storia che si racconta da sola. Chi scrive è come se si calasse all'improvviso dentro al suo pozzo, e ne venisse fuori fradicio ancorché non vi fosse prima annegato.
Cosa si fa se si nasce a San Piero in Campo? Si fa il cavatore di pietra. Guglielmo era un cavatore di quella pietra che, probabilmente, non ha la stessa nobiltà di quella di Carrara, ma che ha la stessa durezza. Non so e non posso sapere quali strade lo avessero portato via dall'Elba, anche se posso intuirlo; come ogni piccola isola, l'Elba è un posto dal quale, a un certo punto, si va via. Senza remore. Poi, magari, ci si torna; oppure anche no. Anni in cui andare via, emigrare, era la normalità; e qui mi devo fermare. Devo saltare a un certo giorno, che non è un giorno qualsiasi: al 25 aprile 1945.
Guglielmo Pacini, elbano di San Piero, faceva parte delle Brigate Garibaldi. Chi ve lo avesse portato, e per quali motivazioni e ideologie, lo ignoro e continuerò a ignorarlo; era un ragazzo di ventidue anni che, come centinaia di suoi coetanei, aveva scelto di lottare contro il nazifascismo; altro proprio non mi riesce dire. Essendo nelle Garibaldi, era possibile che si sentisse legato al comunismo, o al socialismo; io, invece, ora non so proprio come andare avanti e bisogna che mi versi un bicchierino di водка, magari alla salute di quel ragazzo e di tutti gli altri che in quel giorno toccavano il futuro. Non era questione che non ci fosse. C'era tutto da fare.
Il 25 aprile 1945, alle ore 7 del mattino, pare che Guglielmo Pacini dovesse restare ragazzo per sempre, e che non dovesse mai più rivedere l'Elba, San Piero, le cave. Per il semplicissimo motivo che quel giorno, a quell'ora, era stata fissata la sua fucilazione, a Milano. La parola “fato” significa "quel che è stato detto"; la sua radice antichissima è quella del verbo latino “fari” e di quello greco “φημί”. Alla stessa radice appartiene anche la parola “fama”.
A quella stessa ora, il cavalier Benito Amilcare Andrea Mussolini si trovava pure a Milano e si preparava a scappare verso Como ("se avanzo seguitemi" ecc.). All'alba, in città scoppia l'insurrezione generale decretata dal CLN; i plotoni di esecuzione fascisti sono fermati, e i prigionieri vengono liberati; tra di essi il cavatore ventiduenne sanpierese Guglielmo Pacini. Per quanti sforzi io faccia, non mi riesce di immaginare la cosa. Sapere di dover morire sotto il piombo a una data ora, contare i minuti, palpare gli ultimi istanti di vita; poi arriva qualcuno e ti dice: sei libero. Così come capitò a Dostojevskij. Magari mezz'ora prima, o dieci minuti. C'è stato comunque chi è morto, in quell'ultimo giorno di guerra. No, davvero non è possibile immaginare una situazione di questo genere.
Arriva la Liberazione, e la storia del cavalier Mussolini Benito la conosciamo tutti. Il camion tedesco, l'arresto, la Petacci, Dongo, Giulino di Mezzegra, il colonnello Valerio. La conosciamo tutti perché, questa, è Storia ragionevolmente appurata nonostante tutti le ipotesi, controipotesi, clamorose rivelazioni, smentite e quant'altro. In questa storia, invece, non si sa cosa abbia fatto il partigiano Guglielmo nei quattro giorni tra il 25 e il 29 aprile 1945. Avrà, probabilmente, vagato per Milano; avrà festeggiato; si sarà comprensibilmente ubriacato di vinaccio; avrà fatto l'amore con una ragazzotta; avrà sventolato la sua bandiera; avrà fatto qualsiasi cosa, personale e collettiva, che gli ribadisse d'essere ancora vivo. Non credo che sia stato facilissimo convincersene, nonostante l'atmosfera. Nel frattempo, il 28 aprile, Mussolini, la Petacci e gli altri gerarchi repubblichini vengono spediti all'altro mondo, e qui si torna alla Storia. Il 29 aprile, però, li ritroviamo tutti insieme. Il partigiano Guglielmo scampato alla fucilazione, i fascisti fucilati e Claretta Petacci. Sono tutte e due nella stessa piazza, la storia e la Storia; piazzale Loreto.
La stessa piazza, è oltremodo bene ricordarlo, dove qualche mese prima 15 partigiani erano stati fucilati, ed i loro cadaveri straziati tenuti esposti al ludibrio per un giorno intero su un marciapiede. Occhio per occhio. Al "Duce", alla sua amante e agli altri gerarchi fu riservato lo stesso trattamento. Prima esposti sullo stesso marciapiede, e nelle medesime condizioni; poi appesi per i piedi a ciò che venne genericamente definito un "traliccio", e che invece era la struttura di una stazione di benzina. E qui succede una cosa; anzi, un intreccio di cose.
Claretta Petacci, l'amante del "Duce", subisce lo stesso destino degli altri; solo che, essendo una donna, indossa una sottana. In quella posizione, scomodissima anche per un cadavere, l'indumento si rovescia e la lascia nuda. Il partigiano Guglielmo era stato destinato a far parte di un cordone di sicurezza che impedisse alla folla inferocita di infierire sulle salme dei fascisti; un'ipotesi alquanto realistica. Una giovane partigiana non ce la fa, e decide di risparmiare a quella donna un'umiliazione senz'altro inutile, anche se non è dato sapere se, a parti invertite, una giovane fascista avrebbe fatto lo stesso con una partigiana ammazzata. La giovane partigiana va a chiedere a una compagna se ha una spilla da balia, e questa gliela dà; poi chiede aiuto per salire sul traliccio. Si fa avanti il partigiano elbano Guglielmo Pacini, e insieme alla giovane partigiana danno la scalata alla struttura; il momento fissato anche in una foto abbastanza famosa. Insieme fissano con la spilla la sottana di Claretta Petacci, morta, coprendola. La storia sarebbe, in fondo, finita qui.
Non interamente. Prima di tutto, anche la giovane partigiana che salì sul traliccio insieme al cavatore elbano Guglielmo Pacini ha un nome e un cognome. Era nata a Torino il 14 giugno 1921, sette anni prima del Che Guevara; da ragazzina era stata un'abile nuotatrice. Si chiamava Carla Voltolina, e questo doveva essere il suo aspetto a quell'età:
Non molto tempo dopo si innamorò di un altro partigiano, che sposò. Con ingenua fierezza, mi sono sempre compiaciuto di dire che siamo nati lo stesso giorno: il 25 settembre. Si chiamava Alessandro Pertini, detto Sandro. Anche quando fu eletto presidente della repubblica, la Carla continuò a fare la sua vita; era diventata psicologa, e negli ultimi tempi lavorava a Firenze, all'ospedale di Santa Maria Nuova. Una volta, risiedendo a Firenze, la incontrai sull'autobus, alla fermata di via Martelli davanti alla libreria Marzocco. Molti anni fa, in un altro secolo e probabilmente anche in un altro mondo. Il partigiano Guglielmo ebbe a dire, e c'è motivo di credergli, che in quelle ore a piazzale Loreto aveva avuto più paura che nei mesi e mesi passati a combattere in montagna.
Sono profondamente convinto di due cose, per le quali mi pregio d’assumermi le mie responsabilita con nome, cognome e, se richiesto, indirizzo, numero di telefono e codice fiscale.
La prima è che il trattamento riservato a Mussolini e a quegli altri appesi sia stato del tutto giusto e doveroso. Le morali revisioniste non mi toccano manco di striscio, nemmeno per quanto riguarda la Petacci. Ha condiviso un destino, e stop; non vedo perché dovrebbe esserle riservato un trattamento di favore. Rimanere fedeli al proprio uomo fino alla fine non è , poi, necessariamente un titolo di merito e di ammirazione; altrimenti lo stesso dovrebbe essere detto di Frau Eva Braun, della signora Magda Goebbels o della “doamna” Elena Petrescu coniugata Ceauşescu.
La seconda è che, sicuramente, in mezzo a quella folla inferocita che desiderava infierire sui cadaveri dei fascisti, ci saranno stati molti che fino a pochi mesi prima li osannavano e gridavano "Duce, Duce" nelle piazze. Ma non è una cosa di cui stupirsi troppo, ed è propria di ogni dittatura. Se proprio devo scagliarmi contro gli italiani e le loro attitudini, non lo farò per questo; è successo sempre, e ovunque. Quando cade il tiranno, i primi a volerlo sbranare sono i suoi fan di un tempo; salvo poi tornare a rimpiangerlo. E, comunque, quando si vive sotto un'occupazione feroce e ti dicono di andare a berciare in piazza, ci vuole coraggio a non farlo. Di solito partono le scariche di fucileria e le stragi.
Ora sì, la storia e la Storia sono terminate.
Non so quando il partigiano Guglielmo sia, finalmente, tornato all'isola d'Elba. Forse avrà passato la vita altrove per tornarvi in età avanzata; o, forse, ci sarà tornato subito. La giovane partigiana che era salita con lui sul traliccio andò per una strada, lui per un'altra. Si dice che non parlasse volentieri di quell'episodio, Guglielmo, perché temeva di non essere creduto; magari non sapeva nemmeno di essere stato fotografato.
E non so nemmeno come definire quel gesto, perché non mi piace la parola "pietà". Forse, chissà, un gesto di elementare civiltà in quelle ore che, comunque, non possono essere giudicate con i metri comuni; o, forse ancora, e più semplicemente, il gesto di due ragazzi che non avevano perso il senso dell'umanità pur davanti a chi di umanità non ne aveva mostrata alcuna.
Prima o poi, comunque, il partigiano e cavatore Guglielmo Pacini sarà rimontato sul traghetto da Piombino, per tornare finalmente a San Piero. Ne avrà avute di cose in testa, e avrà avuto in sé anche la necessaria forza per vivere una vita normale, appartata, magari mantenendo i suoi ideali o magari anche abbandonandoli. Di cose ne succedono, durante una lunga vita; specialmente quando, in un dato momento, quella vita sarebbe dovuta terminare invece presto, e che è continuata perché così ha deciso il destino.
A Marina di Campo, alcuni anni fa, uno spazio ricavato dietro al fosso del Vapelo, proprio dove abitavano quei due miei zii che erano tornati dall'Argentina, fu adibito a parcheggio. Fu deciso di intitolare quello spazio "piazza Sandro Pertini", e allo scoprimento della targa fu invitata Carla Voltolina. Era presente, si dice, anche Guglielmo Pacini. La avvicinò, facendosi riconoscere; lei volle dargli una delle rose rosse che le erano state appena consegnate dal sindaco (un mio ex professore di matematica, uno che tentò eroicamente e inutilmente di farmi entrare un po' di algebra nella zucca). Spero che quella rosa abbia seguito il partigiano Guglielmo nella tomba, e penso al fatto che, oramai, di quei ragazzi ne saranno ancora rimasti vivi due o tre in tutta Italia.
Riccardo Venturi