L'energia elettrica entrò nelle miniere isolane nel 1912. Poiché i lavori estrattivi avevano bisogno di una potenza impossibile da importare, la società Elba fu costretta a costruire delle centrali per le miniere principali. Tra il 1912 e il 1926 entrarono in funzione tre centrali, la prima delle quali al Portello, nella miniera di Rio Marina, e poco dopo nelle miniere di Rio Albano e Calamita. Erano dotate di motori a combustione interna, accoppiati ad alternatori. Dal 1930 però furono fermate e tenute in manutenzione conservativa per i casi di emergenza, in quanto le miniere furono servite da una linea ad alta tensione, e diverse cabine di trasformazione, alimentata dalla centrale di Portoferraio. Questa infatti poteva garantire l'approvvigionamento non solo agli altiforni e la città, ma a tutto il fabbisogno isolano, grazie al recupero dei gas del processo di fabbricazione della ghisa, sfruttati come energia per muovere le turbine.
L'elettricità sostituì il vapore nell'azionamento dei vari componenti di laverie e pompe. Ma permise di mettere in funzione anche piani inclinati ascendenti (quelli discendenti erano semplicemente automotori) e montacarichi per sollevare il minerale estratto da cave in depressione e avvallamento. Inoltre si rivelò un grande aiuto per i cavatori nelle perforazioni meccaniche.
A questo proposito, rileva Gastone Garbaglia: “Specialmente nella zona di Calamita ove il minerale è formato da ematiti e magnetiti molto compatte associate a silicati ferro-calciferi, materiali tutti di grande durezza, l'abbattimento con la perforazione a mano, se da un lato era molto costoso per la Società, dall'altro richiedeva uno sforzo fisico assai grave agli operai e quindi era stato tentato più volte di ricorrere alla perforazione meccanica con piccoli compressori azionati da motori a scoppio. Però questi tentativi, per varie ragioni, dipendenti in gran parte dalle difficoltà di maneggiare nei cantieri macchinari troppo complicati, non avevano avuto buoni risultati. Fu solo quindi con l'impianto dei grossi compressori azionati da motori elettrici, macchinari tutti questi molto più semplici ed installati in appositi locali, alquanto distanti dai cantieri di lavoro, che è stato possibile, nella zona di Calamita, realizzare al completo l'abbattimento meccanico”.
Uno degli edifici citati, con in parte ancora presente il compressore e il complesso elettrico, si vedeva fino a non moltissimi anni fa nel cantiere del Vallone alto, sopra la costa delle Francesche. Chi scrive lo ricorda perfettamente, ancora in piedi sebbene in stato di rudere, con ogni ingresso sormontato dall'iscrizione che indicava la funzione delle singole stanze. Addirittura, se la memoria non mi inganna, esistevano ancora all'interno i macchinari per la produzione dell'elettricità e il compressore che alimentava i percussori della miniera. Oggi la struttura è pressoché rasa al suolo.
L'elettricità permise, nella stessa Calamita, la costruzione di un impianto di frantumazione, collegato con un nastro trasportatore, anch'esso a trazione elettrica, che portava il minerale alle tramogge, in prossimità del pontile di caricamento.
Con l'introduzione dell'elettricità entrò in miniera una nuova figura professionale, quella dell'elettricista, appunto. Era un mestiere molto rischioso, con incidenti mortali, anche in tempi recenti. La scarsa preoccupazione alla sicurezza, le inadeguate dotazioni di fissaggio o di abbigliamenti isolanti, anche nel dopoguerra, esponeva questi operai a molteplici rischi, dalla folgorazione alla caduta dai tralicci. La prima doveva essere tremenda, non solo considerando l'alta potenza dell'elettricità utilizzata nelle cave, ma acuita anche dal passaggio in ambienti saturi di acqua, che doveva portare a una morte atroce, tipo sedia elettrica. Come quella che nel 1955 uccise l'elettricista ventiduenne Lidio Quintavalle al Vallone.
Tuttavia era un lavoro molto ambito. Per molti anni infatti risulta la figura professionale meglio pagata tra quelle minerarie. Il contratto di lavoro del 1927 ci dice che si andava da un salario giornaliero complessivo di 16,80 lire per minatori, aiuto stradini, frenatori e manovratori, alle 17,45 dei motoristi, meccanici e falegnami; dalle 17,80 dei fuochisti alle 18,70/18,75 dei macchinisti e stradini. Ma gli elettricisti prendevano ben 20,70 lire.
All'inizio furono assunti elettricisti dei privati. In seguito divenne una mansione direttamente preparata dalla società concessionaria: sembra che ci fosse una sorta di turn-over tra gli elettricisti veterani e i loro aiutanti, che dai primi apprendevano il lavoro, per poi sostituirli al loro pensionamento. Nel dopoguerra invece gli elettricisti venivano preparati dalla scuola professionale mineraria che la società Ferromin aveva impiantato a Rio Marina.
Della centrale elettrica di Calamita oggi restano i ruderi tra i cantieri del Vallone e Macei, ma chi scrive la ricorda ancora perfettamente operativa, anche una decina di anni dopo la chiusura della miniera. Vicinissima alla laveria del Cannello, fu costruita nel 1954-55, ma fu utilizzata per un tempo brevissimo, sembra a causa di un elevato costo di mantenimento. La miniera fu quindi allacciata alla rete elettrica nazionale. Scrive Filippo Boreali: “Fu realizzato un elettrodotto ad alta tensione, tuttora in uso, raggiungendo la miniera e utilizzando il locale della centrale per collocarvi trasformatori e distribuzione. A Ginevro fu costruita una prima cabina elettrica accanto ai compressori, per alimentarli insieme alla laveria e alle gallerie. In seguito ne fu costruita un'altra a quota 70. Quando, nel 1970, entrò in attività il pozzo, la cabina alimentò l'impianto d'estrazione esterno e quelli delle gallerie a quota -54 e -8
Andrea Galassi