Molto puntualmente Federico Ranfagni, dimostrando che Facebook può essere anche qualcosa di diverso da un "pubblico sfogatoio" o da una "discarica culturale pesantemente indifferenziata" o se vogliamo ancora un Suk della comunicazione ed una fiera delle vanità voyeuristiche ed esisibizioniste, ha inviato un post (che sta diventando virale) il cui (corposo) testo è il seguente:
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.
Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
A rifletterci è sbalorditivo che esattemente 100 (cento) anni fa un signore, anzi un ragazzo (25 anni da compiere all'epoca), che si chiamava Antonio Gramsci, sia riuscito a scrivere qualcosa che è perfino banale definire "così attuale", qualcosa che, parola per parola (fatta salva la utopistica profezia errata finale sui benefici effetti del socialismo che quel ragazzo sardo vagheggiava) può rappresentare una sorta di specchio - crediamo - di quanto in questi giorni si ritrovano a pensare molti di noi.
Le festività di fine anno (caricate o meno poi dai diversi popoli di credenze o leggende religiose) hanno tutte la loro radice nella paura solstiziale del cavernicolo, e nella gioia di averla scampata di nuovo, perché, se le giornate tornavano quasi impercettibilmente ad allungarsi, il sole, non si andava spegnendo, e si poteva sperare in una nuova prossima buona stagione, nella vita, sia pure incerta.
E se è umanamente accettabile la ritualità ottimistica del festeggiare nell'illusoria formulazione dei "buoni propositi" (individuali o collettivi) come se una data potesse davvero significare un punto di svolta verso un mondo diverso e "più bello che pria", niente di serio, nessuna fola raccontata da politici di plastica a reti unificate, ci può esimere dal pessimismo (gramsciano) della ragione, che ci conduce a "l'anno che sta arrivando, tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità" di Lucio Dalla.
E mescolando irriverentemente poetica canzonettara e più "alto" lirismo ci viene la parafrasi di "E come potevamo noi cantare..."
E come potevamo noi festeggiare la fine dell'anno orribile dei settecento bambini annegati nel "mare nostrum", con la morte inflitta dai tagliagole che si è fatta spettacolo, con un'umanita che continua a mostrare in ogni angolo del mondo la sua più sporca e crudele faccia, i suoi suini grandi e piccoli egoismi?
Come possiamo festeggiare pensando che dopo il cambio di data, che ci mostreranno con la scansione dei fusi orari il un tripudio di fuochi artificiali, il mondo sarà un posto dove si continuerà a crepare in fasce di fame esattamente come prima?
Aveva ragione Gramsci c'era poco da festeggiare in quel capodanno 1916, e forse ancor meno ci sarà da festeggiare domani "allo scoccare della fatidica mezzanotte" come ci diranno dai multicolori schermi.