Tante volte lo abbiamo detto conversando fra noi, o anche scritto, che non poteva durare. Le contraddizioni di un mondo che consumava l’ingiustizia e la diseguaglianza senza darsi un freno; che segava lo stesso ramo sul quale stava seduto; che si abbandonava senza moderazione al desiderio di accumulare qualunque cosa -denaro, potere, successo, consenso (o il desiderio di tutto questo)-; l’avevamo detto che quelle contraddizioni contenevano il segno inequivocabile della fine.
Ci aspettavamo -nel nostro inguaribile ottimismo della volontà- che la collera dei poveri, come diceva La Pira; o la Rivoluzione degli sfruttati; o la presa di coscienza degli uomini di buona volontà, sarebbero arrivati a porre fine alla corsa suicida di una società impazzita (e ormai incapace mantenere la promessa di un benessere diffuso, proposto come premio all’acquiescenza a un modello di produzione e di allocazione delle risorse che iniquo e rapace).
Non riuscivamo a immaginare come sarebbe accaduto, e ci pareva di cogliere segnali -anche forti- di cambiamento nelle crisi periodiche e sempre più frequenti del “sistema”. I più prudenti però ci ammonivano che “il Capitalismo ha i secoli contati”, mentre i funamboli della finanza tiravano fuori dal cappello a cilindro nuovi escamotage che spostavano in avanti la resa dei conti che ormai non tornavano più.
Come sempre accade, quanto più la crisi si aggravava tanto più coloro che ne erano responsabili o ne avevano ereditato la gestione -con radiosi compensi economici- radicalizzavano i comportamenti di rapina e cercavano in ogni modo di rafforzarli con il consenso, affidandosi ai giochi di illusionismo dei social media.
Perciò il pessimismo della ragione ci diceva che ci sarebbero voluti appunto quei secoli di cui parlava Ruffolo.
Poi, il sistema pianeta, che è più grande e potente dei sistemi umani, ha dato uno strattone. Il Covid 19. Imprevedibile -se non al modo di Bill Gates, un po’ facile, però-, incontrollabile, inarginabile. Come un gigantesco meteorite -lui, infinitamente piccolo-, un’eruzione di un vulcanio islandese, un maremoto. Inspiegabile.
In quaranta giorni è cambiato il nostro mondo. Nulla sarà più come prima, si è detto subito; ma ora lo sappiamo con certezza. Quaranta giorni, e l’umanità intera -oltre i contagi e l’insostenibile dolore per tutti quei morti- è stata colpita da uno sconvolgimento le cui conseguenze dureranno per un tempo lunghissimo, nel quale tutto dovrà essere reinventato.
E’ vero, altre volte l’umanità ha visto eventi simili, e tutti abbiamo ricordato le pestilenze famose dei secoli passati col retropensiero che se erano trascorse quelle, se erano state superate... Ma questa nostra sventura attuale è diversa; perché nel passato -fino ancora alla Spagnola di cent’anni fa- le catastrofi di questo tipo erano percepite in qualche modo come circoscritte, come riguardanti luoghi più o meno lontani anche se poi arrivavano dappertutto e anche vicino a noi. Della Peste milanese del 1630 ne sappiamo molto di più noi forse di quanto allora non ne sapessero a Roma. Oggi però tutto è a conoscenza di tutti, simultaneamente. Tutti abbiamo visto cosa accadeva mentre accadeva; in Cina come a Milano; vicino e più lontano; prima, durante e dopo. Abbiamo visto svilupparsi le conseguenze patologiche del virus, ma anche quelle economiche, nel momento in cui si mettevano in movimento; abbiamo potuto esser testimoni o protagonisti di improvvisi e catastrofici impoverimenti di già poveri, di agiatezze che apparivano consolidate, di imprese che apparivano ben piantate, di progetti che suscitavano grandi speranze.
Abbiamo assistito al crollo dello Stato -della sua economia, della sua capacità di governare, della sua possibilità di programmare-. Al crollo dell’Europa, ormai custode di un fantasma del sogno dei padri. Al crollo dell’Impero d’Occidente frazionato in tanti piccoli interessi di conservazione del poco che resta in piedi, schiacciato sotto il peso dell’immenso disastro nascosto sotto il tappeto di un debito sconfinato e insolvibile (la finanza creativa). Al crollo dell’Oriente, del Sud, di tutto. Ne siamo stati e ne siamo testimoni di minuto in minuto. Abbiamo sotto gli occhi lo spettacolo penoso dei piccoli egoismi che cercano di ignorare l’accaduto esibendo la volontà di ripartire, senza capire che non si potrà ripartire, ma che si potrà, si dovrà “partire di nuovo”. E che per farlo dovremo cambiare un po’ tutto.
Abbiamo continuato a complimentarci con l’Imperatore per la bellezza dei suoi vestiti sempre nuovi, ma ora non lo si può più fare: il Coronavirus ci ha disvelato che il re è nudo.
Quaranta giorni. Ora dobbiamo decidere se vogliamo ricostruire Varsavia com’era prima della distruzione, o se volgiamo riedificare Berlino per i tempi nuovi. Perché certo un’altra città ci aspetta, un’altra “civitas”, un’altra civiltà. Indipendentemente dalla nostra volontà e dal nostro intervento quella di prima è crollata. E se è vero che era lei il problema, come è stato detto acutamente, allora facciamo in modo che quella nuova sia migliore.
I pesci, le meduse e i polpi nella laguna di Venezia e nel nostro mare; i fagiani e le lepri nelle nostre campagne; i cieli tersi e l’aria pura al posto dello smog delle città e delle metropoli sono, mi pare indicazioni di metodo piuttosto interessanti. Non perdiamo questa occasione, che ci è costata così tanto.
Buon Primo Maggio, ricordando Gian Paolo che quest’anno non c’è.
Luigi Totaro