Milva non ha visto il suo 76esimo 25 Aprile. Milva, plebea e raffinata, rossa e scandalosa, era la cantante preferita del mi’ babbo Veleno che di 25 Aprile ha fatto in tempo a vederne 25, quando la libertà era ancora fresca e il sangue e la polvere della guerra si potevano ancora toccare con la mano, guardandosi nello specchio di un passato vicinissimo e di un futuro che non era diventato la rossa primavera dei partigiani.
Milva e Fischia il Vento erano probabilmente per Veleno il riassunto cantato della ribellione di una famiglia intera di anarchici e comunisti contro il fascismo, un testardo cantare controvento, una bufera attesa e vista in tutta la sua sporca ferocia sotto il bombardamento disumano di Cassino, nella pietà per i morti, nella giustizia per i vivi, nella voglia di pace con un fucile in mano.
Milva e la sua canzone erano i ricordi non detti, nascosti per pudore, di un giovane uomo, un ventenne illetterato, che fu costretto a fare la guerra per chi odiava e che dietro una mitragliatrice imparò cosa era la lotta di classe che gli aveva raccontato il su’ babbo leggendogli pagine di Pietro Gori e Bakunin.
Era la musica semplice di una Russia mitica, diventata Unione Sovietica, era l’Armata Rossa vincitrice che arrivò a Berlino seminando per strada 20 milioni di morti nelle pianure gelate e nel caldo soffocante, che liberò i campi di sterminio, che piantò la rossa bandiera dei contadini e degli operai sul Reichstag di un Hitler già morto. Era la rossa primavera che non venne. Era una speranza ritmata, come se fosse inevitabile, da una voce allora moderna, potente come la Soyuz che portò nello spazio Yuri Gargarin e Valentina Tereskova e il mondo nel futuro, era un canto fresco e nostalgico che faceva bene all’anima e al cuore.
Veleno non ne sapeva niente del teatro, dei circoli culturali, di Strehler, non lo sapeva e non lo avrebbe neanche capito quel mondo così lontano, sapeva però che nessuno cantava la sua semplice canzone di speranza e battaglia come Milva la rossa.
E questo bastava, per ogni 25 Aprile, quando ce la ricantava stonato, ma senza incespicare sulle parole. Come ci cantava solo quella canzone, le scarpe rotte e pur bisogna andar.
Umberto Mazzantini