Doveva essere il 1969 e il 1970, e quindi avevo 12 o massimo 13 anni, quando facemmo saltare la grossa mina di potassio e zucchero che avevamo preparato all’imbocco di via Santa Chiara, nella striscia di lastre di granito che taglia in due il mosaico di sassi di Piazza di sopra, proprio accanto a dove c’era la bottega di alimentari di Ferruccio, il babbo di Paolo Longo.
Proprio mentre il botto scoppiava, capitò lì, per nostra disgrazia, la signora Clara, la mamma di Pasquale Berti - che poi sarebbe diventato sindaco democristiano di Marciana Marina - che stava andando a una qualche messa natalizia o post natalizia. La Signora Clara aveva appena scantonato che venne investita dalla deflagrazione e, non avendo già una gran simpatia per noi, e per la scossa che la fece sbiancare in viso, comincio a inveire contro quel gruppo di imberbi dinamitardi chiamandoci Valpreda e sacrileghi, dicendo che tanto lo sapevano tutti che eravamo stati noi a rompere la vetrata a mosaico di Santa Chiara. Anche Ferruccio uscì allarmato dalla sua bottega, ci scacciò via, consolò l’arrabbiatissima Signora Clara, mentre noi, fintamente contriti con un risolino soddisfatto sulla bocca, ci tenevamo prudentemente a qualche metro di distanza da possibili calci in culo.
Il nome di Pietro Valpreda fissa in qualche modo la data perché il 12 dicembre del 1969 ci fu il sanguinario attentato di Piazza fontana – che inaugurò gli anni terribili della strategia della tensione e degli attentati - e l’anarchico Valpreda venne incolpato e arrestato insieme a Pinelli, diventando Valpreda un mostro per l’opinione pubblica, mentre Pinelli volava da una finestra della questura di Milano. Quindi il botto al potassio che spaventò la Signora Clara e Ferruccio Longo poteva essere stato fatto esplodere da noi solo dopo quel sanguinoso attentato o l’anno dopo, quando ancora i depistaggi e la propaganda politica dicevano che a mettere la bomba – quella vera, non i nostri botti da scemi - era stato Valpreda.
Io chiesi al mi’ babbo veleno – che era tornato da una delle sue ultime licenze natalizie dal Sanatorio di Grosseto - se per lui era stato Valpreda, e mi rispose che gli anarchici (come il mi’ nonno Giovanni) quelle cose non le facevano. Poi venne fuori che aveva ragione il mi’ babbo. Ma la Signora Clara aveva ragione su un’altra cosa: eravamo stati davvero noi, l’anno prima, a far saltare la finestra a mosaico che rappresenta Santa Chiara e che illumina la chiesa parrocchiale.
Eravamo una banda di sciagurati che metteva i pochi soldi da parte (magari imboscando parte di quelli guadagnati lavorando l’estate, come usava allora) per comprare il potassio. Lo zucchero per potenziare lo scoppio lo rubavamo direttamente a casa o in qualche bottega. La Piazzetta di Santa Chiara, dove c’è la grossa fonte quadrata con la vasca a conchiglia e ora c’è il ristorante l’Affrichella, era perfetta per sperimentare di giorno i botti che poi la notte andavamo a far esplodere in giro per il Paese: aveva due vie di fuga e soprattutto c’era il ballatoio di Ersilia da dove lanciavamo, dall’altezza di qualche metro, un pietrone sul mucchio di potassio coperto con un sasso ciatto, provocando esplosioni da minatori. Un sistema che adottammo in particolare dopo che il mi’ cugino Massimo de’ lo Spazzino aveva perso il tacco e mezza suola di una scarpa per far esplodere con il solito calcio strisciato un botto che si era rivelato un po’ troppo grosso.
Insomma, mentre facevamo i nostri esperimenti da artificieri, ci venne la balsana idea di utilizzare la cantonata della Chiesa, dove c’è lo scalino sotto la finestra con l’immagine della Santa Patrona, per far esplodere un grosso botto, convinti che, da lì, con di fronte via Felice Cavallotti e il mare, lo avrebbero sentito in mezzo Paese. Lanciammo il sasso sul mucchio ricoperto di potassio e saltarono le tessere del mosaico del finestrone e noi, capendo immediatamente cosa avevamo combinato, ce la telammo a gambe levate verso via dei Malcontenti per poi dividerci, come la banda di farabutti che eravamo, chi verso il Vicinato, chi verso il Toro e chi verso il Cotone.
Per un paio di giorni ce ne stemmo calmi. E i cani, che allora giravano liberi e a branchi per le vie del Paese, tornarono ad azzuffarsi per le femmine e ad accoppiarsi, e gatti spaventati che ci rifuggivano come la peste rifecero capolino in un Paese che sembravano aver abbandonato. Il campetto sassoso della Soda si ripopolò di annoiati giocatori di pallone e noi aspettammo che passasse la bufera, schivando le domande indagatrici delle nostre mamme che sospettavano, con quasi certezza, che gli autori del sacrilegio, dell’attentato a Santa Chiara, fossimo stati noi.
Poi, con l’avvicinarsi del Capodanno, tornarono i botti, ma “moderati” e lontani dalla Chiesa.
Eravamo in quell’età che dopo si scorda rapidamente, tranne qualche sprazzo di memoria come questo, il confine confuso tra il bimbo e la gioventù, quando non si sa ancora chi siamo e quando il branco è tutto, quando l’amicizia è anche fatta di stupidaggini insensate e di risse da cani randagi.
Con i nostri botti da scemi abbiamo spaventato persone e animali, fatto cose per le quali, passati gli anni, non avremmo perdonato i nostri figli. Ma tutto era lì a portata di mano, quasi che un botto e la nostra sfrontatezza ci potessero portare davvero in un crepitante anno nuovo, nel futuro ignoto e pericoloso che è diventato il nostro oggi, in questo inverno dello scontento.
Buon anno senza botti!
Umberto Mazzantini