Caro Direttore,
sono trascorsi diciassette anni da quando inviavo a Elbareport questa riflessione sul Natale. Te la ripropongo oggi come la scrissi allora, poiché in questo lungo tempo non è cambiato nulla, se non forse che ci siamo tutti un po’ “imbruttiti”, come i “milanesi” dell’omonimo canale You Tube. Se credi, possiamo riproporla ai lettori del giornale.
“Buon Natale!”: quante volte in questi giorni abbiamo sentito e sentiremo questa frase! Senza che nessuno se ne chieda il significato: formula vagamente beneaugurate, come potrebbe essere “Buona fortuna” o, appunto, “auguri”. Mi è capitato di pensarci nel contesto del dibattito attuale sul fatto che nelle scuole per i più piccoli si debba fare il Presepe o l’Albero, o non far niente come proponeva un’insegnante di una scuola nel Trentino, per non offendere i bimbi fedeli di altre religioni. I favorevoli sostengono che non si deve rinunciare a una tradizione -antica e fortemente sentita da molti- per rispetto di altre tradizioni, ma che la scuola deve offrire un arricchimento proponendo l’apertura delle culture diverse alla nostra, come della nostra alle culture diverse (alcuni dei favorevoli esprimono tesi più radicali di tipo sciovinistico, ma non credo si debbano prendere neanche in considerazione). I contrari fanno appello alla natura ‘laica’ della scuola di Stato, e sostengono che ogni riferimento religioso sarebbe più opportuno nelle sedi proprie (parrocchie, famiglie).
Entrambe le posizioni ora riassunte in modo schematico mi sono sembrate considerevoli. Ma è a questo punto che è intervenuta la mia riflessione, tradottasi in una serie di domande: ma il Natale che si festeggia in questi giorni che cosa rappresenta effettivamente? a quale tradizione fa riferimento? perché è importante parlarne ai bambini?
Nella tradizione cattolica, per quel che io conosco, il Natale ricorda l’incarnazione di Gesù figlio di Dio, Dio egli stesso che ha accettato di divenire uomo per ‘rigenerare’ ogni singolo uomo colpevole -attraverso il peccato di Adamo- di aver rinnegato l’amore del Dio creatore. Gesù, allora, nuovo Adamo, riprende il progetto divino della creazione e ristabilisce, per chi ha fede, il rapporto di paternità/figliolanza fra Dio e uomoo. Il Natale cristiano, appunto, celebra il momento fondamentale della nascita di Gesù Uomo Nuovo, e ricorda a ciascun fedele il dovere di far nascere dentro di sé un sé nuovo, mettendo in discussione tutta la propria vita fino al momento presente, e impegnandosi a un rinnovato progetto di vita insieme a tutti i membri della Comunità cristiana e della più vasta Comunità umana. “Buon Natale” significa, dunque, “Buona rinascita, buona rigenerazione, augurio di riuscita in un progetto di vita necessariamente difficile, come difficile è l’imitazione del modello proposto nel ‘Discorso della montagna’: Beati i poveri, i miti, coloro che sono capaci di perdonare, coloro che sono capaci di soffrire per la giustizia, ecc. (Mt. 5, 3-12).
Non credo che alcun uomo, quale che sia la religione che abbraccia, potrebbe sentirsi offeso da una “tradizione” come quella che ho riassunto. Ma che rapporto ha questa tradizione con il Natale che si celebra in questi giorni? Dove è finito il richiamo alla speranza che collega la tradizione cristiana del rinnovamento di ciascuno e di tutti, alla tradizione ‘pagana’ del rinnovamento della natura simboleggiato dall’Albero e da Babbo Natale -l’Anno vecchio che dona la sua eredità all’Anno bimbo, per avviarsi con qualche conforto verso le nuove stagioni-?
Francesco d’Assisi, ben consapevole della difficoltà di spiegare il significato della narrazione evangelica della nascita di Gesù, creò il Presepe, per sottolineare come il Figlio di Dio avesse scelto di nascere nelle viscere della terra (la grotta), nella condizione più ingrata (l’assoluta povertà), nell’anonimato più assoluto: e tuttavia la luce di speranza che proveniva dalla grotta di Betlemme aveva avvicinato uomini semplici e potenti sovrani, che meditavano sul significato di quanto vedevano. Avevano portato doni per l’Uomo nuovo che nasceva, per il Re del Nuovo Israele, per il Messia; li vediamo deposti ai piedi della mangiatoia: l’oro, l’incenso e la mirra -simboli della ricchezza dei re- assieme ai prodotti dei pastori e degli artigiani -simboli del lavoro degli umili-, perché tutto divenisse nuovo, per inaugurare la “nuova stagione”. Neanche un giornalista, neanche un ‘Porta a porta’, neanche un spot pubblicitario.
Ma i presepi delle chiese, della case, delle piazze sono ancora capaci di raccontare la scandalosa meraviglia che destava quel Dio povero e nascosto, quell’uomo destinato a rifondare la storia (e, del resto, i crocifissi alle pareti degli edifici pubblici sono ancora capaci di raccontare lo “scandalo della croce” del figlio di Dio venuto a liberare gli uomini dalla morte)? “Tu scendi dalle stelle Re del Cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo”, dice il canto natalizio: ma chi lo canta si domanda il significato delle parole -appunto la descrizione del presepe-, o lo canta come l’Inno di Mameli, senza capire il significato delle parole ma solo sentendosi “appartenente”?
Penso, allora, che l’apparato festevole con cui si celebra il natale -le mille luci, i cenoni, i doni della vanità, la profusione di denaro che diviene paradigma della ricchezza della nazione, della famiglia, della persona- il trionfo dello spreco e dell’inutile che ha sostituito la cerimonia del dono ai bambini come testimone propiziatorio del Vecchio al Nuovo; il Natale esibizione, il Natale ipocrisia -tutti più buoni, per un giorno-, il Natale mercato così lontano dalla grotta di Betlemme; penso che tutto questo non offenda solo o tanto i fedeli di altre religioni, o chi come me non ha ‘religioni’, ma debba offendere soprattutto i fedeli cristiani, che vedono tornati nel Tempio i mercanti che Gesù aveva scacciato (Mt. 21,12). Per questo credo che nelle scuole non si debba celebrare più il Natale, almeno fintanto che non sarà tornato a essere una Cometa capace di guidare di nuovo potenti e umili a ritrovare la strada che porta nel cuore della terra, dove un racconto antico e nobile dice che la Verità era divenuta uomo nel grembo di una donna non contaminata dai poteri ‘patriarcali’.
Concludo ricordando, nel dramma della storia di questi giorni, la fine di una poesia che lessi al tempo della guerra del Vietnam e che mantiene una sua terribile attualità, sottolineando l’inutile vuoto di decenni di celebrazioni natalizie:
“Ogni villaggio di povera gente,
dove i bambini non hanno sorriso,
ogni villaggio coperto di bombe,
ogni villaggio che Cristo difende
per regalargli un giorno di pace,
ogni villaggio si chiama Betlemme
se la giustizia vi può germogliare”.
Buon Natale
Luigi Totaro