Quando è morto Enrico Berlinguer ho pianto, eppure ora, a ripensarci, Berlinguer è morto nell’anno più importante della mia vita, mentre mi preparavo a sposare Marianne, all’inizio di un’estate che è racchiusa tra quel ricordo di lacrime e la felicità. 40 anni fa.
Berlinguer morì con un intero popolo che lo accompagnava verso un al di là in cui non credeva, con le donne in chiesa a pregare per il leader comunista, con gli uomini di fronte alla sezione e alla bacheca del Partito Comunista marinese a legge l’Unità che informava passo passo sull’agonia di quell’uomo minuto, fragile come un uccellino che seppe far volare milioni di persone verso la speranza di un futuro migliore.
Quando morì Berlinguer molti si chiedevano perché i comunisti piangevano e i comunisti credevano di piangere per Berlinguer e invece piangevamo atterriti per noi stessi, per il nostro futuro e per quello dell’Italia. Lo vedevamo tra il velo delle lacrime, come un presentimento che diventa certezza.
Sapevamo senza saperlo di essere come il calabrone che vola anche se non potrebbe e che quell’ometto gentile e inflessibile che sfidava l’Unione Sovietica e parlava ridendo coi muratorii, quel frusceIlo preso in braccio da Benigni. quel tizio mite e gentile che parlava di fronte a milioni di persone della vita e del futuro, era le ali ronzanti del calabrone, quelle che ci tenevano su anche se era impossibile.
Piangevamo il nostro futuro, sapevamo che dopo quello niente sarebbe stato più come prima, che quell’uomo rigoroso che parlava un italiano forbito con un’indubitabile accento sardo, quell’intellettuale che metteva in fila i nostri pensieri proletari, li ordinava e ce li restituiva, non c’era più.
Piangevamo, lo abbiamo pianto in milioni nel più grande funerale della storia italiana, una bara in un mare rosso. Lo abbiamo pianto di fronte alla televisione come fossimo in quella marea rossa. Lo abbiamo pianto con un presidente partigiano, come un figlio, anche se poteva esserci – e in qualche modo ci era – padre.
Lo abbiamo pianto e poi le lacrime si sono asciugate come quella marea, e molti la risacca di quella marea se li è portati via, fino a scordarsi le lacrime, fino a rinnegare le rosse bandiere.
Quel piccolo uomo morto mentre ci invitava per l’ultima volta al lavoro e alla lotta era la nostra speranza, lo specchio in cui guardarsi con affetto e orgoglio. Ora, a volte, rimane solo il rimpianto e un po’ di vergogna per quel che avrebbe potuto essere stato, per la generosità e il perdono che non ci siamo dati, per le lacrime che non ci siamo asciugati l’un altro, per le parole che non ci siamo detti e per le troppe parole definitive che ci siamo detti, per lo spreco di un racconto popolare dimenticato.
Umberto Mazzantini