In questi giorni il Parlamento è chiamato a intervenire sul tema del suicidio assistito, rivedendo la disciplina sul fine vita. La Corte Costituzionale, infatti, dovrebbe riunirsi sull'argomento e, in assenza di specifico intervento normativo, decidere in merito. Come è noto, il pronunciamento della Corte si è reso necessario per la vicenda del dj Fabo, persona ammalata accompagnata in Svizzera da Marco Cappato per praticare il suicidio assistito. Cappato è stato giudicato in quanto le norme italiane prevedono una pena per questo tipo di azione (art. 580 del Codice penale).
Sabato scorso ho incontrato una ex alunna del liceo classico di Portoferraio, suor Costanza Galli, medico, responsabile dell'Unità di Cure Palliative dell'Asl Toscana Nord-Ovest. Le ho chiesto cosa pensa di questo argomento su cui c'è parecchia confusione.
"Occorre distinguere fra eutanasia e suicidio assistito. L'eutanasia è un atto medico che con una terapia, o togliendo una terapia cioè un sostegno vitale, porta la persona inesorabilmente e abbastanza rapidamente a morte.L'intento è quindi di procurare la morte, di far cessare la vita. Qui c'è bisogno di una persona che lo faccia. Nel suicidio assistito, questo atto è il malato stesso che lo fa".
Come è noto, in Italia l'eutanasia è vietata, perché la vita umana è considerata un bene primario, e il codice penale vieta anche l'aiuto al suicidio. Ed è su questo che il parlamento è chiamato a intervenire.
"Bisogna dire - aggiunge suor Costanza - che sta passando il principio secondo il quale la vita non è più un bene indiscusso da proteggere. Molto spesso, per parlare di questi temi si portano esempi estremi, come i malati terminali, le persone in stato di coma. Ma, se passa il principio che togliersi la vita è un diritto, è facile arrivare ad una escalation, ad un'estensione che potrebbe riguardare, per esempio, chi si trova in condizione di forte depressione o, come succede altrove, chi è affetto da sordità. Insomma, dove si arriverà non si sa. Se ciò dovesse attuarsi, lo Stato si deresponsabilizza nell'aiuto al malato, venendo meno ai principi di solidarietà. E tali persone potrebbero essere viste come un costo, e quindi arrivare a parlare in termini di risparmio economico".
Quali soluzioni sono possibili?
"Prima o poi si arriverà anche in Italia ad una legge sull'eutanasia. Un po' per l'Europa, un po' perché la popolazione, sull'onda di casi limite, si convince della sua necessità. Sappiamo che lo Stato ha dei bei principi (teoria) ma nella prassi non sempre è all'altezza. E' il caso delle cure palliative, una realtà che aiuta a vivere la fase conclusiva della propria esistenza. E' dimostrato che, dove si è completamente aiutati dallo Stato e dalla società (non sentendosi un peso per la famiglia, un costo sociale), la richiesta eutanasica crolla. E' tutta una cultura che porta alla decisione di farla finita, una cultura fondata su criteri della vita come godimento per cui chi ha dei problemi si sente (ed è considerato) meno degno di vivere".
Insomma, in questo ambito, si dovrebbe prima di tutto applicare pienamente la legge sulle cure palliative, aumentando le risorse umane (figure professionali) invece di operare tagli. Inoltre, per il suicidio assistito, occorre evitare la depenalizzazione, trovando un accordo per diversificare le sanzioni.
In ogni caso è tutta la materia del fine vita a dover essere considerata, partendo anche dalla legge vigente (legge 219/2017) sulle Disposizioni anticipate di trattamento. Una legge che può essere migliorata, anche riconsiderando il ruolo dei medici (come da loro stesso richiesto), nella consapevolezza della loro professionalità e della coscienza e del non mero ruolo notarile. Certamente vita e morte non possono essere messe sullo stesso piano e ogni persona ha una sua dignità e nessuno può essere scartato.
Nunzio Marotti