Tra il 18 e il 20 settembre 1943, a 10 giorni dalla vergognosa fuga dell’8 settembre che consegnò per sempre alla vergogna i Savoia e la monarchia, volenterosi complici del nazifascismo, mentre l’Isola d’Elba era già sotto l’occupazione tedesca e l’occhiuta sorveglianza di chi aveva svenduto la Patria allo straniero, a Pianosa scoppiò una rivolta che però non vide tra i suoi protagonisti i prigionieri politici, ma detenuti comuni, quelli che il fascismo cancellava dalla storia e dalla cronaca perché il regime non poteva tollerare che i treni arrivassero in ritardo e i delinquenti rapinassero le banche e neanche i pollai.
Nessuno sa più perché scoppiò la rivolta, probabilmente per le condizioni subumane nelle quali un direttore fanatico e crudele teneva i detenuti, che videro nell’8 settembre e nella fine annunciata del fascismo l’occasione per farsi un loro 25 Aprile anticipato.
“La Storia dell'Elba” di Luigi De Pasquali dedica all’eccidio poche righe compassionevoli: «Nell'isola di Pianosa si era ribellato un gruppo di detenuti. Cinque dei diciannove, tanti erano i ribelli, furono uccisi sul posto. Gli altri furono imbarcati su un rimorchiatore. Nessun carcere dell'Arcipelago Toscano dove la nave peregrinò per diversi giorni volle ricevere i detenuti. Alla fine i disgraziati furono fatti scendere sulla spiaggia di Procchio e fu loro dato l'ordine di aprire una trincea nella sabbia...».
Dell’eccidio racconta ne “La Ritrattazione” - in un racconto poi ripreso e ampliato da Raffaello Brignetti - Giulio Caprilli. Ecco cosa scriveva il grande poeta e scrittore elbano quasi dimenticato ricordando quel di cui era stato testimone da ragazzo: «Oggi, 13 ottobre, al tramonto, si compie un altro anniversario della morte dei quattordici reclusi assassinati sulla spiaggia (una delle tante dell'isola) che guarda verso Capraia. È fatta tutta di sabbia che sta fra il giallo e il marrone, e da un lato (a destra di chi guarda il mare) c'è un tamericio isolato tutto trasandato dal vento. Una volta c'è rimasta per chissà quanti anni una vecchia carcassa di paranza di Viareggio. Un pittore del continente arrivò e ci fece un bozzetto che poi dipinse ed espose insieme ad altri, in una galleria di qui ed ebbe successo («Il pittore era Gonni e la galleria era a Firenze», spiega Manrico Murzi). I quattordici furono ammazzati proprio in quel punto. Prima li legarono tutti con una catena di ferro e dopo l'assassinio quelli furono tutti sotterrati sotto un riempimento di sabbia. Fortuna che non ci salirono forti libecciate, subito dopo quel fatto, perché sennò il mare se li sarebbe presi in gruppo e con estrema facilità li avrebbe trasportati. Allora mi viene in mente una quantità di cani tutti bianchi e mugolanti con le teste vicine. Ora, a distanza di anni, hanno fatto un processo alle Assise di Lucca. Gli imputati sono venuti tutti fuori dal carcere. Il processo è stato celebrato per via di altri cinque reclusi, compagni dei quattordici, uccisi qualche giorno prima, ma non come questi ultimi (cioè con le catene alle mani e ai piedi davanti a una fossa comune), ma a colpi di moschetto in testa e a calci sulle spalle, come usava in quei tempi famosi e non ancora così lontani».
Infatti, sedata la rivolta, cinque detenuti vennero ammazzati sul posto: Antonio Andriani (40 anni, di Molfetta), Lorenzo Cerruti (41 anni, di Ginevra), Giuseppe Piccolo (31, di Palermo), Luigi Maccioni (39, di Gonnesa). Giuseppe Tornatore (52, di Ferrara). Forse toccò loro miglior sorte degli altri 14 detenuti ribelli che furono imbarcati su un rimorchiatore per portarli, in una lunga via crucis marittima e terrestre, al carcere di Porto Longone, alla Linguella e alla morte.
Nemmeno la data e l’ora della morte di questi 14 disgraziati è certa: Caprilli e Brignetti scrivono che sarebbe avvenuta il 13 agosto, altre fonti del 14 agosto. Quel che è certo è che dopo essere stati nella pancia puzzolente del rimorchiatore, dopo essere stati respinti dal direttore del carcere di Porto Longone e dopo un peregrinare per le strade polverose dell’Elba in guerra, i rivoltosi vennero portati da secondini e fascisti in un magazzino di Via Roma a Marina di Campo, e qui li prelevarono un ufficiale e 4 soldati tedeschi che li fecero salire su un camion, vietando ai loro complici italiani di seguirli.
Il camion si diresse verso la Pila e poi a Procchio, dove i detenuti – scomodi scarti da eliminare - furono costretti a scavarsi la loro fossa comune. E furono proprio i nazisti a dare alla loro disperata rivolta pianosina e al loro vagare affamato per l’Elba una colorazione antifascista perché, credendo così di togliere loro l’ultima dignità, prima di freddarli con sventagliate di mitra, li obbligarono a gridare «Viva il Duce!», come un’ultima e irreparabile resa e umiliazione.
Solo nel 1948 qualcuno, Dino Lupi, sindaco democristiano di Marciana, scrisse una nota ufficiale su quell’eccidio dimenticato: «Non si conoscono le ragioni che indussero i tedeschi a compiere l'atto, ma deve ritenersi per rappresaglia».
Questi 14 poveri cristi seppelliti sotto la sabbia di Procchio con i loro stracci inzuppati del loro sangue scuro erano: Marino Caceffo (Verona, 1887), Michele Franchina (Castell'Umberto, 1898), Pietro Albanese (Petralia Soprana, 1900), Gino Giuseppe Lucca (Firenze, 1900), Guido Gaspare Lucca (Firenze, 1903), Carmine De Rosa (Quindici, 1903), Antonino Giarrizzo (Adrano, 1903), Giovanni Capasso (Somma Vesuviana, 1904), Luigi Chizzoniti (Radicena, 1904, oggi Taurianova che potrebbe essere stato imparentato con un noto antifascista locale: Rocco Chizzoniti), Edoardo Moramarco (Il Cairo, 1904), Mario Carlo Beraud (Oulx, 1906), Emanuele Fazio (Palermo, 1908), Giuseppe Polimeni (Cerosi, 1911), Antonino Violante (Rosalì, 1912).
Anche se tra loro sembra ci fosse qualcuno proveniente da famiglie con precedenti problemi con la giustizia, l’unico noto sembra essere Marino Caceffo, nato in realtà a San Zeno di Verona, e diventato così famoso per le sue gesta, tanto da essere entrato nella lingua italiana. Infatti, sull’Enciclopedia Bresciana si legge: «CACEFFO Marino (S.Zeno di Verona, febbraio 1887 - ? ). Bandito veronese nel 1899 venne arrestato per la prima volta per furti e oltraggio. Poi le sue imprese non si contarono più assieme agli arresti. Il Caceffo si segnalò presto anche nel bresciano. Imprigionatovi nel 1923 fuggì dalle carceri assieme a certo Groggia. Il suo cognome è entrato nei parlare popolare per indicare un "brutto tipo" o una cosa di cattivo gusto».
Insomma, il brutto ceffo era lui e il punto interrogativo sulla data della sua morte è probabilmente un giorno di metà agosto, prima dell’Assunzione di Maria e di un Ferragosto che nessuno festeggiò, a Procchio.
L’ufficiale e i soldati tedeschi che compirono l’eccidio sono restati impuniti e senza nome. Forse qualcuno di loro venne raggiunto in seguito dalla giustizia di una pallottola alleata o partigiana, oppure è morto vecchio in Germania, nemmeno pentito di aver tolto la vita a dei delinquenti che avevano sfidato l’autorità del Duce e del Fuhrer. Scarti da forno, da fossa comune di campo di sterminio. E Procchio è stato quello: un piccolo campo di sterminio per uomini da buttare.
Comunque, come ha raccontato nel dicembre 2013 Riccardo Venturi nel suo blog “Rete Asociale”, in una bella ed emozionante ricostruzione della vicenda – “Quattordici Galeotti (l’eccidio di Procchio)” - questa è una storia vergognosa e rimossa: «Non una lapide, non un ricordo qualsiasi che sia uno, almeno a mia conoscenza; poi, mi auguro, potrò sbagliarmi. Uno dei tipici casi in cui si amerebbe parecchio essere smentiti. Del resto, è una storia di carcerati; non ci sono, qui, partigiani o resistenze. Non ci sono nemmeno i civili massacrati dalle orde nazifasciste; Procchio non è Marzabotto, non è Sant'Anna di Stazzema, non è il Padule di Fucecchio. E' una spiaggia dove furono ammassati quattordici detenuti sul bordo d'una fossa. Quattordici delinquenti, e delinquenti rimangono anche se ammazzati dai tedeschi in un giorno del '43».
Ne “La ritrattazione” Giulio Caprilli, spiega anche come andò a finire il processo italiano: «Gli uomini, a Lucca, sono risultati pienamente in diritto di fare quello che fecero. Le guardie rappresentano sempre la legge, la legge rappresenta sempre il più forte, e quindi la forza è la giustizia. «Voi avete ancora le vostre bandoliere immacolate perché rappresentate la forza e la giustizia», ha gridato loro un avvocato, nell'entusiasmo di quella vittoria sulle vane richieste dei parenti dei cinque e dei quattordici reclusi assassinati, in tutto diciannove. E le guardie si sono guardate in faccia e si sono abbracciate perché non sapevano più contenere la loro soddisfazione. Ma c'era in loro anche dell'alterigia e un senso illimitato di fierezza, perché finalmente era stato riconosciuto il loro pieno diritto in base a non ricordo più quale numero del codice militare. Gli altri, gli esecutori materiali dell'assassinio dei quattordici, non sono stati nemmeno processati, perché nessuno ha voluto andarli a cercare e individuarli nella confusa massa degli eserciti di quel periodo (mi sembra: ero sui quindici anni). Alcuni di essi avranno ormai trovato altrove la giusta sorte e alcuni saranno tornati ai propri paesi e alle loro famiglie, senza mai dare segno a parenti e amici di quello che fecero. E d'altra parte è naturale che sia così, o addirittura è quasi logico, perché non si sa bene quale affidamento si debba fare su una giustizia. Ma una cosa è certa: il più grande torto degli assassini e dei malvagi non è tanto di avere commesso delle cattive azioni, quanto quello di avere reso o rendere malvagio l'animo di quelli che hanno subito le loro persecuzioni; o sgomento, vuoto, il cuore di chi li ha visti. All'epoca della mia strana infanzia, invece di essere curvo e patito come ora quel tamericio era un gigante. Anche perché i pescatori se lo curavano e faceva una grande macchia di ombra sul giallo della rena, e serviva loro da ombrello nelle ore di riposo. Io mi ci mettevo sotto a riposarmi dopo la lunga camminata, e poi mi svestivo, e mi ci arrampicavo su come per guardare più grande l'orizzonte, l'isola di Capraia, e qualche volta anche la Gorgona che appariva bene dopo una libecciata o, d'inverno, una tramontanata che rischiarava tutto a Nord. Qualche volta c'era con me Andrea: si correva intorno al tronco del tamericio. Ora io so com'è quella spiaggia e com'è quel tamericio. Questa stagione, tuttavia, non sarà mai la stagione di una volta. C'è Punta Bianca e Punta Nera, Punta dell'Avvoltoio, c'è Cala Grande, Cala Piccola, Cala dei Frati, poi altre punte e cale diverse: ma quanti morti da nominare su tutte le spiagge gialle del mio paese!».
Manrico Murzi, ricordando qualche anni fa su “Lo Scoglio” il racconto dei suo amico Caprilli, concludeva: «Così il racconto breve di Giulio, con la parola tutti ripetuta all'inizio come un singhiozzo. Sullo stesso evento, bella anche la narrazione marina che ne fece Raffaello Brignetti (https://www.mucchioselvaggio.eu/FOTO_C7/NUMERI/30/30-10.pdf) Abbiamo cercato di individuare il tamerice, un giorno di questo settembre luminoso: difficile in un luogo senza sasso di ricordanza e dove la vita di spiaggia fluiva vivace e spensierata».
Umberto Mazzantini