"Noi non siamo ancora partiti" dice una studentessa di terza liceo scientifico alla mia domanda su quanto il covid abbia pesato sulle dinamiche sociali della sua classe.
Sono queste le sensazioni di chi è entrato al liceo da due anni e da più di un anno e mezzo vive nell'epoca covid. Una generazione congelata, bloccata, che ancora non capisce esattamente come siano trascorsi questi due anni, che ancora aspetta di finire la prima, lo aspetta mentre sta per andare in terza.
Questo stesso quadro si riflette identico su tutti gli altri anni e classi dei ragazzi intervistati, tutti compresi tra il 2006 ed il 2002, tutti accomunati dalle stesse parole nel descrivere il buio relazionale e percezionale di questi venti mesi di pandemia.
Un buio che si riflette, elemento molto preoccupante, anche a livello didattico e formativo. Non certo per errrori o incapacità di un sistema scuola che ce la ha messa davvero tutta, quanto per la natura stessa di una dad che spesso fa solo da placebo ai bisogni ed alle esigenze degli studenti.
Oggi però, quando finalmente sembra possibile "ri-partire", è interessante ascoltare le voci dei miei coetanei, segnati da un'esperienza tanto drammatica quanto anomala e ancora immersi in una pressione psicologica erede dei mesi invernali, seppure inserita in un quadro estivo ormai tranquillo e libero.
Per questo abbiamo iniziato un viaggio nei pensieri dei ragazzi elbani, ponendo una serie di domande significative ad un campione rappresentativo di studenti delle superiori che ci hanno dato risposte tra loro molto simili e diverse, al tempo stesso.
Siamo partiti dall'inizio.
Cosa ti evoca il periodo del lockdown e delle chiusura II ondata?
In un campione di dieci ragazzi le parole più ricorrenti sono forse le più "scontate", ma a volte anche osservare davvero ciò che è ormai retorica ci può far riflettere: tristezza, paura - le più quotate - ma anche angoscia, solitudine, "astrazione dalla realtà" e soprattutto incapacità di scaricare lo stress scolastico. C'è poi chi, tra gli intervistati, parla di una situazione familiare deteriorata, di una casa diventata rapidamente una prigione psicologica prima che fisica dalla quale, se la circolazione fosse stata considerato illecito penale e non amministrativo, si sarebbe fuggiti più volentieri "facendosi arrestare". Parole forti queste, parole di realtà che ci raccontano qualcosa che non vorremmo sentire ma che dobbiamo ascoltare o rischiamo di diventare computer statistici prima che umani.
Da qui la chiacchierata evolve naturalmente verso un altro tema, le dinamiche sociali e di classe: metà degli intervistati (quelli più giovani) parla di una classe che non si è mai unita, di relazioni difficilmente approfondite. Per gli altri il deterioramento delle relazioni ha riguardato soprattutto quelle extrascolastiche, favorendo la localizzazione delle amicizie, ampliando artificialmente le distanze tra persone che abitavano a 10km di distanza come fossero 100.
Ripercussioni che si vedono ancora oggi, per 8 intervistati su 10, che dicono di percepirsi ancora in uno stato di "limbo", cresciuto tra una quotidianità estiva a cui mancano solo gli eventi per essere pari al 2019 e un quadro epidemiologico che minaccia sempre di peggiorare senza vaccini, ma anche segnato da ansie e comportamenti ormai diventatati abituali che portano a diffidare di chiunque ci stia intorno, come di un nemico minaccioso.
Discusso del passato abbiamo chiesto del futuro.
"Quali sono le nostre prospettive?", questa la domanda su cui si registrano le maggiori differenze, questa la frazione che crea i due grandi "partiti" del covid: i rassegnati e gli ottimisti, gli uni per gli altri "i catastrofici" e "gli illusi".
Una ragazza intervistata alla domanda sulle sue previsioni risponde con un sospiro che sembra durare ore, per la sua espressività e che si risolve in un "tanto torna tutto come a ottobre", niente vale parlarle di vaccini (che sta per fare), di terapie, di strategie epidemiologiche: "ormai andrà male; non voglio più illudermi".
Un altro ragazzo invece si mostra ottimista, non fa mai vacillare il suo ottimismo, tira dritto: con i vaccini il covid non uccide, senza morti, senza ricoveri, abbiamo vinto. Effettivamente questo è ciò che dice la scienza, ed è ciò che più razionalmente dobbiamo aspettarci. Il problema però sta in chi il vaccino lo rifiuta ed è proprio questa l'altra e determinante domanda che abbiamo posto, in maniera un po' particolare: "domani vieni nominato Presidente del Consiglio, i tuoi consiglieri ti espongono la situazione: i contagi salgono, rischi per i vaccinati non ce ne sono,ma i tuoi concittadini non immunizzati rischiano la pelle; cosa fai?"
Chiara in ognuno, tranne in una delle ragazze lei stessa particolarmente prudente sui vaccini, la volontà di evitare ogni chiusura, gli intervistati si dividono tra i sostenitori del "metodo Macron" e i fatalisti "stile Johnson".
Chi parla di obbligo definisce l'imposizione del vaccino salva vita come una cosa scontata, con una logica difficilmente attaccabile: nessuno dei no-vax ha valide conoscenze mediche, chi consiglia i vaccini si. Dare la libertà di scelta equivalrebbe a dire che l'ignoranza individuale possa sovrastare, per lo stato, la realtà scientifica e la libertà collettiva.
Ogni misura restrittiva a carico dei vaccinati per loro sarebbe invece davvero un atto dittatoriale che obligherebbe alla disobbedienza.
I liberisti invece citano la costituzione, parlano di libertà individuali, un ragazzo cita il famoso brocardo: "la mia libera finisce dove inizia quella altrui", a dimostrazione del fatto che ognuno è responsabile per se stesso e che non può imporre agli altri obblighi: siano il vaccino o restrizioni a difesa dei non immuni.
So cosa si può contestare di questa inchiesta: "avete ascoltato 10 persone, il campione non è rappresentativo". È vero. Ma lo abbiamo fatto per dare un pensiero, un viso umano, una contestualizzazione a quei numeri da sondaggio che seguono ma che da soli restano solamente astratti segni grafici.
L'80% degli studenti campione dichiara di aver visto peggiorare significativamente le proprie relazioni sociali nel periodo di pandemia, con forti ripercussioni a livello psicologico, ancora oggi valide. Tra questi il 30% dice di essersi ormai rassegnato alla condizione pandemica e di aver "perso le speranze".
Similmente il 67% dei ragazzi parla di una motivazione assente durante le giornate.
Il 70% dichiara di aver visto ridursi le proprie amicizie a causa delle restrizioni pre-vaccini.
Aumentato anche il tempo di utilizzo dei dispositivi digitali per il 73% dei ragazzi, con un 22% che lo usa (o dichiara di usarli) per 9/10 ore al giorno.
Non abbiamo dati invece sull'approccio al vaccino, ma probabilmente sono sufficienti le immagini delle code al centro vaccinale di Portoferraio per capire l'entusiasmo della maggioranza della popolazione giovanile alla prospettiva di tornare liberi e sicuri.
Pietro Gentili