Enrico Graziani si è spento. Un bravissimo medico, intelligente, disponibile, preparato -ha continuato a studiare fino al suo ultimo respiro-; un politico pragmatico e realista, ma capace di fughe in avanti nel cielo dell’utopia; un uomo di intense passioni -personali, culturali, politiche- e di grandi curiosità -negli ultimi quindici anni, lasciato l’impegno politico attivo, aveva ripreso un vivo interesse per la Storia, con cospicue letture e attente riflessioni-.
Per me è stato un amico caro e impegnativo, con cui ho condiviso rilevanti e gratificanti impegni, segnati anche da dure discussioni e clamorosi scontri: ma senza veder mai diminuito l’affetto personale, anche nei momenti di maggior tensione.
La vecchiaia ci ha trovati ancora capaci di gustare lunghe conversazioni nel suo bel giardino alla Pila, e di scambiare una confidenza matura, che per sua parte si è concretizzata nella dettatura di una autobiografia che voleva pubblicare come testimonianza su di sé alla comunità campese che lo aveva accolto e alla quale aveva cercato di restituire quanto la sua capacità professionale e la sua intensa passione gli consentivano.
Le pagine introduttive, che riporto di seguito, contengono quindi -in certo modo- un suo testamento politico (peraltro molto simile a un ultimo programma elettorale, leit motiv di tutta la sua vita pubblica), e credo siano il saluto più appropriato a un uomo che ha segnato il suo tempo e quello della sua comunità.
Io lo ricordo con grande affetto, e molti credo -oltre i suoi cari, ai quali mi stringo- condivideranno la profonda gratitudine con cui lo saluto.
Luigi Totaro
Autobiografia di un medico di periferia (Enrico Graziani)
Sono nato nel profondo Sannio Frentano l’anno 1943, in una famiglia che da generazioni produceva medici. Ho studiato a Campobasso e poi, a Roma-La Sapienza, mi sono laureato in Medicina. Era l’anno 1969, con il Maggio francese e Valle Giulia passati da poco, e le città e le fabbriche in grande confusione. C’ero anch’io, e allora si studiava o si lavorava, ma si cercava di cambiare il mondo. Certo noi cambiammo, in moltissimi: e il paesello se ne stava sempre più sullo sfondo. Dopo la laurea il bivio: restare all’Università e incamminarsi per la lunga e difficile strada della ricerca scientifica, o iniziare la professione, e a vivere. Rimasi in Università quanto bastò per farmi capire che di studiare non si smette mai, ma poi -come allora si faceva- mi sposai presto con Gina, e sbarcai con lei all’Isola d’Elba.
Era il 1974, e davvero l’Elba somigliava a un sogno esotico. Marina di Campo, con il suo golfo lunghissimo, era il sogno realizzato, sia pure per i tre mesi di sostituzione del medico condotto. Avrei poi dovuto andare via, ma il caso -o il destino, come avrebbero detto i miei nonni- trovò la strada per farmi restare. Per la verità non furono rose e fiori, da subito, e non solo per me; avevo da completare una specializzazione in Continente, e dunque c’era un richiamo importante, anche economicamente, a lasciare l’Isola. Ma l’Elba ammalia, e le guerre da fare e da vincere sono sempre state per me un’attrattiva notevole.
Medico condotto dal 1975 al 1981, poi medico di base, sempre a Campo nell’Elba: quanto basta e avanza per avere una conoscenza puntuale e dettagliata del territorio e dei suoi abitanti, delle dinamiche sociali, delle emergenze, degli assetti di potere e dei conflitti al loro interno. Ero comunque uno straniero, e questo nelle comunità chiuse conta più di qualunque altra cosa, nel bene e nel male: arrivato da comunista in un angolo della Toscana rossa, trovai nei compagni i più tenaci avversari quando si trattò di stabilirmi per iniziare la professione; e allora mi venne incontro un altro straniero, democristiano e politicamente molto attivo, che stava facendo una sua battaglia per la conquista del governo del Comune, battaglia nella quale anche la scelta di un nuovo medico condotto aveva un qualche ruolo. La battaglia fu da lui vinta e da allora, per venti anni, sarebbe stato sindaco di Campo nell’Elba, anzi il Sindaco; e da quella posizione avrebbe poi avuto una rilevanza sempre maggiore nella vita isolana, e anche del suo partito.
Ma i partiti, come ho accennato, qui da noi contano fino a un certo punto: meno delle famiglie, delle loro condivisioni d’interessi, delle loro appartenenze a reti più larghe; certo anche per sollecitazioni immediate, ma anche -e molto-, perché “è sempre stato così, si è sempre fatto così, si è sempre votato così, e per il candidato nostro”. Così al Sindaco non importava molto che io fossi comunista, né a me che lui fosse democristiano. In quel momento mi aveva aiutato, certo per motivi suoi, e anche perché ero nuovo, non schierato, e medico -futuro medico condotto-, con quel che avrebbe significato appunto in futuro il tessuto delle mie relazioni, del tutto esterne alla sociologia consolidata.
Politicamente mi occupavo solo di sport, e solo per passione -costosa come tutte le passioni, e anche un po’ spregiudicata, come avviene quando il cuore tifoso prevale sulla buona condotta-. Nei mesi immediatamente precedenti le elezioni spendevo la mia parola per il Sindaco che mi aveva fatto venire a Campo. Del resto i suoi competitori avevano poche chances, perché qui i sindaci erano sempre stati democristiani; e la loro era più che altro una testimonianza di bandiera: non dimentichiamo che l’Italia era allora sconvolta da bombe e attentati, da eserciti irregolari ma ben armati che si facevano guerra per le strade, da uno Stato che riusciva a mantenere il controllo -quando vi riusciva- grazie all’alacrità di Servizi segreti e ai mestatori infiltrati da tutte le parti. Il Grande Progetto di cambiamento, nutrito negli anni delle rivoluzioni studentesche, si scontrava con i morti ammazzati, e si ripiegava su se stesso: c’era da “far cose più serie, costruir su macerie o mantenersi vivi”, come dice il poeta. La famiglia che cresce, lavoro, sport, e qualche occasione che si presenta, ma intrapresa senza voglia, senza passione, senza crederci più che tanto, per fare qualcosa che era più divertente a pensarla che vederla realizzata.
A Campo, intanto, era il boom. Crescevano case, casette, alberghi, turisti. Non era più la meta del Club Méditerranée, e le belle ville sul lungomare non si riempivano più per tre mesi di famiglie numerose e opulente. Il turismo era più veloce e più diffuso, e meno ricco. Dovevano perciò aumentare le infrastrutture d’accoglienza, e dappertutto crescevano in volume e numero “strutture abitative”, e altre si trasformavano in pensioni e poi alberghetti, e poi alberghi, ma senza una progettazione ordinata, curata, regolata anche sotto il profilo urbanistico ed estetico.
Io facevo il medico e stavo dietro alle altre cose che mi ero inventato, lontano dalla vita dell’Amministrazione, salvo, come ho detto, sotto elezioni: il Sindaco, del resto, non voleva d’intorno nessuno che dividesse con lui alcunché; gli bastava che non gli dessi noia. Forse non gli sfuggiva il ruolo che potevo avere nella creazione del consenso elettorale, e può darsi che questo gli abbia dato pensiero: non gli chiedevo nulla per me; e se rappresentavo qualcosa che riguardava altri che a me si erano rivolti, subito se ne dava carico direttamente, escludendomi. Non avevamo rapporti frequenti né intensi.
Intanto montava anche l’opposizione, anche se più di persone che di schieramenti. Nel 1990, alla sua quarta rielezione, il consenso era ormai diventato esiguo, anche se non feci mancare il mio sostegno, cercando di far pesare il mio contributo nella scelta dei candidati di lista. La politica italiana, del resto, stava cominciando ad avvitarsi nella crisi che sarebbe poi deflagrata con Mani pulite, e le aspettative di cambiamento cominciavano ad arrivare anche in periferia: forse solo l’idea che non tutto fosse spento, e che si aprissero spazi.
Non voglio attribuirmi meriti che non ho. Ma uno sgarbo personale consacrò una frattura fra il Sindaco e me che sarebbe stata lacerante e definitiva sul piano personale e poi politico. Mi piace immaginare che le due cose non siano unite banalmente. Il fatto personale stava dentro uno stile di governo abituale, ma che in quel momento mi apparve intollerabile oltre la mia vicenda. Nel momento stesso in cui maturai l’idea di far guerra al Sindaco immaginai la possibilità, e la necessità, di stabilire una discontinuità che coinvolgesse un modo di concepire l’Amministrazione di un Comune, le relazioni con i cittadini e fra i cittadini, che facesse tornare la Politica.
Scelsi come compagni di strada i perdenti di sempre, portatori di idee più che di interessi, giovani destinati a essere esclusi dalla vita politica fino alla scomparsa dell’intero establishment dominante. Naturalmente rimanendo attento al fatto che eravamo a Campo nell’Elba, e che se potevano cambiare i candidati non cambiavano gli elettori. Fu la campagna elettorale più difficile fra quelle che avevo vissuto, intensa e seguita con estrema attenzione sui due piani che dovevano essere considerati: le alleanze, anche complicate e necessariamente eccentriche, con i gruppi costituiti; la necessità di non spaventare con i volti nuovi che presentavo chi si sentiva più garantito dai volti soliti. Vincente fu la scelta del nuovo sindaco, un giovane fino ad allora lontano dalla partecipazione politica, ma intelligente, laureato, con buone relazioni personali soprattutto fra i suoi coetanei; e con un cognome prestigioso ed evocativo a Campo: certo una persona con la quale si sarebbe potuto ma anche dovuto discutere, sempre; ma con la quale era assai stimolante immaginare di percorrere una strada tutta nuova.
E di strada nuova, a Campo, ce n’era da percorrere davvero tanta, dopo vent’anni di monarchia assoluta, con tanto di corte di vassalli devoti al sovrano, ma a loro volta riconosciuti titolari di un potere, sia pure delegato, da far pesare sui cittadini-sudditi.
Quasi tutta la politica ruotava intorno alla possibilità di costruire, ingrandire, trasformare case; di aprire varchi, modificare assetti, utilizzare spazi previsti per destinazioni diverse. C’era stato da poco un condono edilizio, e le domande presentate all’Amministrazione erano numerosissime: il Sindaco aveva deciso di tener tutto fermo, riservando sine die alla sua discrezione il rilascio delle relative concessioni. Vigeva ancora un Piano di fabbricazione del 1974, la cui concezione -anche soltanto sotto il profilo geometrico- era abbastanza misteriosa (o non lo era affatto). Le Opere pubbliche erano state aderenti a quel Piano, risultando ugualmente oscura (o assai chiara) la loro collocazione. E questo, ovviamente, tanto a Marina di Campo quanto nei Feudi delle Frazioni.
Entrare in quell’equilibrio-disequilibrio era compito arduo e delicatissimo: a parte i blocchi di potere consolidati, c’erano le aspettative derivanti dal cambiamento d’Amministrazione, le lunghe attese sempre deluse, le speranze di rivincita; il tutto in un clima reso pesante da invidie, gelosie, rancori che -come avviene nelle società chiuse- erano sempre aperti al sospetto e sempre timorosi di complotti e di favoritismi, anche quando si trattava del riconoscimento di un diritto maturato, se a esserne titolare era un avversario.
Vincemmo le elezioni (1995). Col nuovo sindaco e con la Giunta, sulla base della mia conoscenza del territorio e delle dinamiche interne alla società locale, concordammo che sarei stato delegato del sindaco a presiedere la Commissione edilizia; e così da subito mi trovai collocato nel nucleo incandescente della politica economica campese. E presto si videro i primi effetti della delusione di coloro che avevano appoggiato la nuova Amministrazione pensando di poter continuare a godere di posizioni di privilegio o di poterle finalmente raggiungere. La Maggioranza Consiliare perse alcuni pezzi, corrispondenti a centri di interessi ben individuabili; e cominciò la guerra contro l’Amministrazione, della quale la Minoranza, guidata dal Sindaco sconfitto, occupava le trincee avanzate tempestando il sindaco vittorioso di un numero incredibile di interpellanze e interrogazioni, potendo anche valersi dell’apparato funzionale amministrativo quasi per intero costituito proprio nel corso del lungo periodo di governo prima della sconfitta.
La creazione di uno staff del sindaco e della Giunta, costituito da persone esterne all’Amministrazione e in certo senso anche alle dinamiche locali, e dotato di alta professionalità, permise ai nuovi amministratori di neutralizzare la guerriglia consiliare, e di consolidare una prassi di governo indirizzata -con significativi successi- a ripristinare il primato della correttezza legale delle procedure e del rispetto dei diritti dei cittadini, chiedendo loro, ovviamente, l’adempimento dei doveri: operazione non semplice, e non perché emergesse una contrarietà di principio ma perché reintroduceva modalità che nella precedente Amministrazione si erano vanificate.
Con il trascorrere dei mesi e degli anni l’Amministrazione consolidò il proprio governo con risultati significativi nella crescita equilibrata della società locale. Ma insieme all’affermazione, come sempre avviene, si accumulava il malcontento dei potenti esclusi che premevano sulle loro clientele. E così coloro che avevano prosperato nella monarchia assoluta del precedente sindaco cominciarono a lamentarsi, sempre meno sotterraneamente, dell’autoreferenzialità del nuovo sindaco, della sua Giunta, dei suoi collaboratori. I nuovi oppositori non costituivano un gruppo compatto e politicamente riconoscibile, ma operavano da posizioni differenti e rispetto a tematiche differenti, il cui denominatore comune era l’insofferenza per il nuovo sistema di regole modulate sistematicamente sulle norme e sulle leggi.
La mia posizione di esterno ma al tempo stesso la mia azione di promotore della nuova Amministrazione, e insieme il fatto che costituivo un elemento di continuità nella discontinuità, quasi un garante dell’operazione, mi fecero ritrovare nel ruolo non gradevole di raccoglitore delle insoddisfazioni di questi gruppi differenti che avevano appoggiato il nuovo esperimento amministrativo campese, ma che sembravano non intendere garantirne la prosecuzione nella tornata elettorale che si avvicinava.
Intanto i nemici dichiarati si adoperavano per mettermi in difficoltà attaccandomi personalmente, e su un piano che avrei poi sperimentato dolorosamente negli anni a seguire: le denunce anonime alle Forze dell’Ordine, con la connivenza di membri locali delle medesime poi manifestatisi come inaffidabili e infedeli. Ma l’attacco produsse, nel clima culturale che si respirava a livello nazionale, la decisione del sindaco di assumere direttamente la Presidenza della Commissione edilizia. La coerenza di quella decisione con l’etica politica di principio a Campo significava però di fatto una vittoria messa a segno dai miei personali avversari politici, e accreditava l’idea di una rottura all’interno dell’Amministrazione, che i suoi critici vollero enfatizzare per affermare la necessità di un cambio al vertice in funzione di un governo del Comune meno “rigido”, meno “distante” dai cittadini. Al di là delle valutazioni personali di ciascuno di noi, mi appariva chiaro che era a rischio la prosecuzione dell’esperienza di rinnovamento coincidente proprio con l’esperienza amministrativa che si avvicinava alle nuove elezioni. E poiché ritenevo che quella prosecuzione fosse da anteporre ai destini di ciascuno, anche di chi aveva assai bene meritato fino ad allora, con gli amici della Maggioranza consiliare decidemmo di andare al confronto elettorale con un nuovo candidato sindaco, che costituisse una discontinuità personale, più digeribile agli “oppositori”, ma che fosse comunque un segno di continuità con la precedente Amministrazione, per avervi ricoperto la funzione di Vicesindaco e per essere stato vicepresidente della Comunità Montana. Vincemmo anche questa volta. Perdemmo però il giovane sindaco del rinnovamento, e il suo più stretto entourage.
La strada era comunque stata tracciata, e si doveva cercare di procedere evitando per quanto possibile deviazioni di rotta, sempre all’orizzonte con la composita aggregazione che aveva consentito la nuova vittoria elettorale. Avevamo in quel momento il vantaggio del largo consenso ottenuto, della conoscenza della gestione amministrativa -complementare ma non sovrapponibile all’elaborazione politica- di un programma da realizzare in continuità con il precedente mandato, e del partito di riferimento alla sua massima espansione. Eravamo però rimaste, con Rio nell’Elba, le due amministrazioni di centrosinistra dell’Isola; e questo aveva comportato la caduta della Giunta della Comunità Montana, che però, grazie alla mediazione del segretario campese del nostro partito, si rinnovò con un accordo di “larghe intese” che portò il nostro segretario alla Vicepresidenza. Poi tutto cambiò di nuovo: le vicende di quell’Ente ebbero una nuova scossa, e precipitarono nel ridicolo e nello squallore.
Tre erano le linee programmatiche guida: lavori pubblici, servizi, politiche fiscali. Le prime due significavano immediatamente la ricerca di risorse finanziarie nuove, visto che in ambito fiscale l’impegno era di non utilizzare aumenti dell’ICI; inoltre si era deciso di non modificare l’equilibrio fra la parte sborsata direttamente dalle casse comunali e la parte di TARSU da richiedere ai cittadini. Per potere avere disponibilità di risorse si agì innanzitutto sul fronte della spesa amministrativa, realizzando ogni economia possibile: e se al tempo dell’Amministrazione centrista il rapporto fra spesa fissa del Comune rispetto alle disponibilità complessive era del 42%, alla fine della nostra esperienza di governo questo si era ridotto al 32% (il che significa, tra l’altro, che la nostra Amministrazione ricercava il consenso attraverso l’erogazione dei servizi a tutti cittadini invece che dall’assunzione in Comune di qualche cittadino). All’interno dell’apparato amministrativo, per neutralizzare assetti di potere e di rendita createsi nei decenni, si procedette a una sistematica rotazione del personale nei vari Uffici, con la duplice finalità di professionalizzare tutto il personale nelle diverse funzioni e di evitare la creazione di posizioni consolidate: operazione forse non immediatamente comprensibile all’esterno, e sicuramente sgraditissima all’interno; ma capace di destrutturare rapporti atavici fra cittadini, fornitori d’opera e di servizi, e Amministrazione.
Ma la grande chance utilizzata per avere disponibilità finanziarie fu il ricorso alle risorse esterne -Regione, Governo nazionale (Ministero degli Interni), Comunità Europea-.
Si è così proceduto all’inizio della riqualificazione dei Centri Storici con opere d’arredo, col miglioramento della viabilità ordinaria, dei sistemi fognari (21 chilometri e ampliamento dei depuratori in Piano) con riutilizzo delle acque reflue, con la posa in opera di sottoservizi, col restauro dei Cimiteri e con il loro ampliamento, con la creazione di viabilità nuova; e ancora opere a mare contro l’erosione, restauro di edifici pubblici, creazioni di parcheggi, ecc.: fino all’anno 2005 gli investimenti hanno assommato a circa €30.000.000. Tra i servizi, primo fra tutti è stato affrontato il problema della raccolta dei rifiuti solidi urbani, con l’esternalizzazione a una società specializzata, la creazione di un Centro Raccolta differenziata (ecocentro del “Vallone”), la creazione di Isole a scomparsa nel centro storico di Marina di Campo -progetto pilota che ha avuto riconoscimenti a livello nazionale-. Si era poi cominciato ad affrontare il tema energetico, e si è realizzato l’impianto di pannelli fotovoltaici sul tetto della scuola, con il risultato dell’autosufficienza energetica per quell’importante infrastruttura. Si era anche elaborato un progetto per la produzione di energia eolica, che avrebbe sollevato la comunità isolana dalla spesa per energia elettrica in misura molto significativa, progetto che non è stato possibile realizzare per difficoltà create -incredibile dictu- da alcuni ambientalisti locali. Per la scuola si è dato vita a politiche di sostegno anche economico, per favorire la prosecuzione degli studi e lenire il problema grave dell’abbandono scolastico: e il Comune di Campo, che prima delle Amministrazioni di centrosinistra era all’ultimo posto nella spesa pro capite dedicata all’istruzione, in dieci anni si era portato al primo posto.
Siamo stati criticati per una eccessiva accondiscendenza alla costruzione di abitazioni private per i cittadini residenti. E tuttavia, al di là delle critiche, l’indice di edificazione era rimasto il più basso fra i Comini isolani (dati della Provincia di Livorno).
Ho voluto ricordare le buone politiche amministrative del Comune negli anni in cui sono stato attivamente presente, non per sfoggiare il medagliere di meriti che certamente non sono solo miei, ma per segnalare come un’azione di governo del territorio e dei servizi programmata nel dettaglio -e realizzata in massima parte- necessariamente complicava le relazioni con i fornitori di opere e di servizi al Comune, da sempre abituati a un rapporto biunivoco con gli amministratori e irriducibili a una prospettiva di sistema. I fornitori storici consideravano il rapporto con l’Amministrazione come una sorta di rendita: ogni anno era loro assicurata una quota di spesa nel settore di competenza. Quando abbiamo cominciato a chiedere preventivi diversi e a scegliere fra offerte differenziate (non necessariamente meno care, ma certamente più congrue), si sono sentiti come privati di un diritto stabilito dalla consuetudine, e hanno cercato di reagire. La stessa cosa è avvenuta per i professionisti esterni. Così, mentre nell’insieme la realtà produttiva si sentiva reintegrata nella possibilità di collaborare con il Comune -soprattutto senza l’intervento di strumenti attivi o passivi di persuasione-, i privilegiati di sempre iniziavano una sotterranea guerra contro l’Amministrazione, e in particolare contro chi in essa si occupava dei loro settori di attività. Nella nuova Amministrazione io ricoprivo il ruolo di assessore ai Lavori pubblici, all’Edilizia privata e all’Ambiente: l’occhio del ciclone.
A partire dal 2001 sono iniziate le ostilità che, come accade nelle società tribali, subito hanno invocato il “giudizio di dio” nella forma moderna della denuncia alla magistratura, assai meno rischiosa per i denuncianti. In quattro anni io ho accumulato ventisette citazioni in giudizio affrontandone i conseguenti processi, ai quali vorrei dedicare un doveroso racconto: non per mia soddisfazione personale, che ho ricevuto pienamente nelle aule giudiziarie risultando puntualmente assolto con formula piena da tutte le accuse mossemi; ma per raccontare, come in un romanzo, una storia esemplare della vita della provincia, laddove l’assenza del sentire politico, la riduzione di tutto a fatto personale, la concezione del potere come acquisizione del detentore della funzione -con la conseguente necessità di riaffermarsi periodicamente- secondo il modello feudale, tutto questo calpesta diritto, dignità, onorabilità del nemico e dei suoi appartenenti, e diviene l’unico strumento concepito di competizione politica.
Un’ultima amara considerazione. Dopo aver assaporato l’ebbrezza di partire tutti con le stesse possibilità, tutti da pari, coloro che avevano plaudito alla fine del privilegio di pochi hanno pensato che invece, forse, era più conveniente partire avvantaggiati, coi vecchi metodi usati nei tempi trascorsi. E alle ultime elezioni (2009), quando mi ero presentato direttamente come candidato sindaco, non mi hanno più dato il loro appoggio.
A Campo nell’Elba si concludeva un altro ciclo, e non solo per me.