Facciamo così Ilio, ti darò del tu, come non ho mai fatto prima. Tu uomo d'altri tempi, io rispettosa di quella distanza. Se la morte separa le persone, dall'altra parte le accomuna, eliminando le barriere delle convenzioni. Mi sarebbe difficile salutarti con una certa cortesia formale, mentre le parole arrivano dal profondo.
Quando ti conobbi mi colpirono le tue mani grandi, mani buone per guidare pullman, per reggere il volante sulle curve a strapiombo di Punta Nera, quando il muso sporgeva sul dirupo, le ruote lambivano il margine della strada, e i turisti guardavano impietriti dai finestrini.
Come un funambolo hai camminato per tanti anni su quel filo di asfalto. Da una parte il versante franoso del monte, dall'altra la scarpata sul mare.
Le tue mani mi hanno sempre ricordato la terra. Avevano l'asprezza delle viti coltivate a ridosso del mare, del vino genuino che sfondava lo stomaco. Il tuo aspetto era ruvido come una botte di legno. La terra prendeva la forma che volevi tu: un orto dai filari impeccabili o una vigna di sangiovese robusto.
Per conoscerti davvero, dovevamo venirti a trovare a Bagnaia. Nella casa davanti al mare, piena di acciughe sotto sale e conserva di pomodoro. La barca tirata in terra, pronta per andare a calare i palamiti, la canottiera lasciata ad asciugare. Le colazioni d'inverno sulla spiaggia, con il pane fresco e la palamita sott'olio di Bruna.
Bagnaia è un mondo a parte, con le sue regole non scritte, con i suoi modi “bagnaiesi” un po' torti. Anche il sole, in quella strana baia di calcare rosa, ha un modo unico di tramontare. Tocca il mare dietro Portoferraio e per un attimo tutto si ferma. Le persone rimangono immobili sulla spiaggia, con le parole e i passi a metà, poi la vita riprende a scorrere, loro non si sono accorte di nulla, ma intanto una scheggia di Bagnaia gli è entrata nel cuore.
Il pergolino è stato un capolavoro, tuo e degli altri “ragazzi” della classe di ferro bagnaiese. Eravate di quella generazione che sapeva prendere, ma sapeva anche restituire. Dopo la pesca, c'era la grigliata per tutti. In quell'angolo accanto alla Casa del pescatore, con il tavolo in muratura, il barbecue e la pergola di incannucciato, i turisti diventavano ospiti, gli stranieri si sentivano a casa. Bastava segnarsi con il gesso su una lavagnetta e chiunque poteva sedersi a quella tavola. Pulivate la spiaggia, potavate le siepi, offrivate bicchieri di vino. Vi eravate fermati un passo prima del turismo, quello sguaiato che avrebbe attaccato con il cemento anche le pendici del Volterraio. Eravate l'ospitalità senza il tornaconto. La partita a carte senza il gioco d'azzardo.
Il pergolino conservava l'anima semplice di quella spiaggia che non era nata per sopportare così tanti motoscafi e bagnanti. Eravate i custodi del mare e della terra. I sacerdoti dei venti, capaci di discutere una mattinata intera sulla direzione del libeccio, “perché entra da sud-ovest ma poi gira da nord-ovest”.
Con te, Ilio, se ne va il profumo delle lampade di mare e dei ricci, fatti sugli scogli verso Zoppigliano. Le sagome dei vecchi pontili di legno, distrutti dalle mareggiate. La pulizia del fosso di Bagnaia, che quando pioveva tanto diventava parecchio torto anche lui. Se ne va quasi un secolo di cultura contadina e marinara, che affrontava la vita con la forza delle braccia, con il cappello da pescatore in testa, con un cesto di fichi e prosciutto da mangiarsi a colazione, a settembre, con chi era rimasto ancora là, seduto al tavolo a discutere del libeccio.
Elena