Il caso di Fausta Bonino (passato in giudicato dopo alterne vicissitudini nei diversi gradi di giudizio) si è chiuso con la condanna della ex-infermiera che è stata riconosciuta responsabile di alcuni decessi di pazienti nell'ospedale di Piombino.
Atteso che le sentenze della Magistratura si rispettano, anche quando non ci convincono, in tutto o in parte, è diritto dei cittadini dissentire da esse.
E - nel caso in specie - in particolare nelle comunità di Piombino e dell'Elba, che registravano l'assidua frequentazione della Bonino, era (ed è) diffusa l'incredulità sulla reale sua colpevolezza.
Aldo Claris Appiani e Lorenzo Marchetti propongono quindi una lettura degli eventi diversa da quella sentenziata:
Nel gennaio 2014, presso il reparto di terapia intensiva dell’ospedale Villamarina di Piombino, iniziò una serie di omicidi di anziani pazienti che sarebbe durata per tutti i successivi ventuno mesi. I “serial killers” che agiscono negli ospedali sono caratteristicamente denominati gli “angeli della morte” e trovano giustificazione del loro operato nel non volere far soffrire ulteriormente i pazienti sottoposti a quello che a loro dire è un accanimento terapeutico. In realtà ciò che li muove è una psicopatia che li porta a realizzare il loro desiderio omicida. I decessi sono causati dall’uso di sostanze come il potassio oppure di farmaci come la digitale e l’insulina. Più raramente questi assassini si servono di un anticoagulante come l’eparina che conduce a morte per gravi emorragie nelle ore successive alla sua somministrazione. L’impiego di eparina permette al killer di liberare le sue fantasie sadiche immaginando a distanza il lento venir meno della vita del paziente man mano che il sangue fuoriesce inarrestabile. Solo l’impiego di un antidoto, il solfato di protamina, può fermare le emorragie, se dato in dosi e tempi adeguati. Nei nostri casi presso l’ospedale di Piombino non fu mai somministrato se non all'atto della morte nell’ultimo paziente e in modo inefficace.
L’uso dell’eparina è abbastanza complicato perché richiede conoscenze scientifiche adeguate sulla sua cinetica, sul suo metabolismo nel corpo umano e sul suo meccanismo di azione. Ci sono sostanzialmente due categorie di eparina: quella cosiddetta non frazionata, a più alto peso molecolare e quelle frazionate, a basso peso molecolare. La prima è in genere somministrata per via endovenosa ma, nella sua formulazione di sale calcico può anche essere data sottocute. Le seconde sono solitamente usate per via sottocutanea ma nulla vieta, volendo, il loro impiego endovenoso. L’azione sulla coagulazione dell’eparina è molto rapida, pochi minuti, mentre la comparsa di emorragia è legata alla presenza di ferite esterne o interne ed è direttamente proporzionale alla loro entità: più grandi sono le ferite, maggiore è l’emorragia, perché l’effetto del farmaco è quello di una rottura di una diga (rappresentata dal sistema di coagulazione) con fuoriuscita inarrestabile del sangue. Tutti i nostri pazienti, come vedremo, avevano ferite legate all’uso di cateteri, strumenti di intubazione, oppure vi erano lesioni traumatiche o importanti interventi chirurgici. Il serial killer che agì nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Piombino dimostrò una notevole padronanza di questi concetti, al contrario del personale medico che fu colto totalmente impreparato a comprendere e affrontare queste situazioni emorragiche.
Possiamo immaginare che l’assassino abbia voluto mettersi nella condizione di portare avanti il suo piano omicida senza rischiare di essere scoperto e quindi di vanificarlo. In questo trovò aiuto nella struttura del reparto di terapia intensiva che non era dotato di un sistema di accesso tracciabile e che quindi gli permetteva di essere presente senza che fosse possibile identificarlo in quel frangente. La sua invisibilità era rafforzata dalla sua posizione operativa nel reparto che non faceva suscitare sorpresa o sospetto in chi lo avesse notato aggirarsi tra i pazienti. Infine la scelta della via di somministrazione del farmaco doveva parimenti rispondere all’esigenza di non esporsi e rischiare di essere notato. Anche se l’inoculazione endovenosa diretta con siringa apparentemente poteva sembrare la soluzione più rapida per ottenere livelli di eparina così alti da produrre gravi emorragie, l’uso di fleboclisi contenenti il farmaco corrispondeva molto meglio al criterio d’invisibilità, fondamentale per il compiersi del suo piano. Poteva, infatti, sfruttare le soluzioni d’infusione prescritte in terapia e già messe a disposizione sui carrelli vicino ai pazienti fin dalla primissima mattinata. L’inquinamento delle infusioni poteva essere fatto con tutta tranquillità e invisibilità inserendo rapidamente nel flacone il contenuto di una o più confezioni di eparina che avrebbe ottenuto alti livelli farmacologici anche se diluiti nel tempo, ma comunque in grado di alterare la coagulazione e indurre emorragie in pazienti che, ricordiamolo, presentavano ferite, traumi o erano stati sottoposti a intervento chirurgico. E così nel gennaio 2014 iniziò la serie di somministrazioni dolose di eparina con due casi, FM, che presentò sanguinamento, e CD, che evidenziò alterazioni della coagulazione, nelle prime ore del mattino dello stesso giorno. I due pazienti non morirono per emorragia e l’assassino si fece l’idea di aver usato dosi troppo basse.
Qualche mese dopo l’omicida fece un tentativo omicida diverso: provò ad usare l’insulina. Tuttavia anche in questo caso (BM) non ottenne il decesso del paziente perché l’insulina provocava si gravissime ipoglicemie, che però erano corrette da massicce infusioni di glucosio operate dai medici in turno. Dopo tre giorni di tentativi infruttuosi decise di abbandonare questo sistema e di ritornare all’eparina a dosi più elevate. Nell’autunno inverno 2014 l’assassino riuscì a portare a termine cinque omicidi: PE, la cui causa di morte fu considerata un’alterazione della coagulazione da infezione; SA che presentava comunque una coagulopatia da cattiva gestione degli anticoagulanti orali; BM ricoverata per ematoma cerebrale traumatico divenuto poi inarrestabile a seguito delle alterazioni della coagulazione compatibili con la presenza di eparina; e SE e ML, deceduti per shock emorragico durante e dopo intervento chirurgico. In questo periodo l’assassino maturò l’idea di procurarsi una copertura facendo ricadere i sospetti su un’infermiera del reparto (Fausta). Innanzi tutto fece combaciare il tempo di somministrazione dell’eparina con i turni, quasi sempre e solo pomeridiani di quest’infermiera, poi cominciò a spargere la voce che portava sfortuna ai degenti perché “spesso” (?) si avevano decessi nel suo turno.
Nel frattempo una rivalutazione dei casi di alterazione della coagulazione fu praticata dal responsabile del laboratorio di ematologia dell’ospedale, messo in sospetto dall’eccessivo numero di essi. Una consulenza personale con un’ematologa di Firenze fece emergere per la prima volta l’idea che dietro questi casi vi potesse essere una somministrazione indebita di eparina. Ai primi di gennaio 2015 ci fu il decesso per emorragia da alterazioni della coagulazione di MF; il responsabile del laboratorio di ematologia inviò allora un campione all’ospedale di Firenze per la ricerca dell’eparina, che venne evidenziata, a livelli altissimi, con metodo indiretto. Ma ancora la dirigenza medica e sanitaria dell’ospedale di Piombino non prese posizione sull’eventuale somministrazione indebita del farmaco. Ci volle un altro caso di morte per emorragie con reperto di alti livelli di eparina nel sangue (CM) (marzo 2015) per convincere i dirigenti dell’ospedale e dell’ASL a coinvolgere la Procura di Livorno, che a maggio 2015 inviò i carabinieri del NAS.
L’indagine ufficiale dei carabinieri prese avvio con la richiesta d’istituire una commissione interna dell’ospedale che fornisse elementi più precisi d’ipotesi investigative. Questi elementi furono: L’idea che il metodo praticato per la somministrazione dell’eparina fosse la somministrazione diretta in vena con siringa; L’individuazione di un intervallo temporale tra la comparsa di sintomi clinici e di laboratorio legati alla presenza di eparina e la somministrazione diretta. L’incrocio di questi dati con i turni del personale in servizio (timbratura del cartellino amministrativo). I descritti elementi furono fondamentali al piano dell’assassino e portarono alla convinzione che la somministrazione per via diretta fosse l’unica plausibile, solo le persone con timbratura del cartellino potessero avere accesso in un reparto blindato. Alla fine ne risultava che Fausta era apparentemente l’unica sempre presente in reparto e l’unica che avesse la possibilità di una somministrazione diretta, che era giudicata di quasi istantanea esecuzione. Nessun’altra indagine né strumentale (video, ricerca dell’eparina nel materiale di uso sanitario), né d’interrogatorio fu eseguita. A fine giugno 2015 ci fu l’ennesimo decesso da eparina nonostante la presenza degli investigatori in reparto. Qui però qualcosa doveva essere andato storto al piano dell’assassino perché egli ritenne di correggere l’orario del diario clinico del paziente in modo da spostare il famoso intervallo da un tempo in cui poteva essere riconosciuto a uno in cui aveva un alibi inattaccabile. E la cosa funzionò perché anche questo decesso fu ascritto all’infermiera Fausta.
Ma era tempo per il killer di chiudere il cerchio che si era formato attorno a Fausta. Occorreva un caso finale risolutivo e questo fu trovato in un paziente diverso dai soliti casi di persone molto anziane, piene di problemi clinici e neurologici, sottoposte a terapie invalidanti. Questo paziente (CB) era, infatti, più giovane e in discrete condizioni e presentava un’occasione unica perché doveva essere sottoposto a un importante intervento chirurgico per frattura del femore. Anche qui però le cose andarono in maniera un po' diversa da come si sarebbe aspettato l’assassino perché l’emorragia letale nel paziente avvenne circa mezz’ora dopo l’operazione e non durante l’intervento come inizialmente programmato. Ma in ogni caso, grazie anche al reperto di un flaconcino di eparina sodica non frazionata nel cestino della spazzatura al letto del paziente (curiosamente solo il flaconcino, nel posto sbagliato di raccolta, senza siringa, set d’infusione o altro), è messa la parola fine all’indagine: somministrazione di eparina non frazionata per via diretta endovenosa, da parte di Fausta, sola sempre presente (o quasi) in turno, a scopo omicida. Si trattava ora solo di costruire una parvenza di movente e questo fu trovato, anche grazie a voci nella cui diffusione l’assassino non era estraneo, in una depressione da probabili problemi familiari in una persona ex epilettica.
Così quella che avrebbe dovuto essere una precisa indagine su un serial killer, attraverso profilo psicologico, conoscenze tecnico-scientifiche, possibilità di azione, ricerca dell’impunità e di una copertura, soluzioni praticate per la realizzazione del piano omicida, si trasforma in una incriminazione di una persona che, depressa e frustrata, fa di tutto per essere scoperta, uccidendo quando è in turno ed esponendosi in prima persona con somministrazione diretta del farmaco mortale. Aspettandosi il suo inevitabile crollo con relativa confessione, gli inquirenti confezionano un’accusa molto debole tanto da non reggere al riesame dopo il suo arresto.
Quando però la confessione non avverrà, sarà necessario per i magistrati valorizzare solo i punti a sfavore di Fausta (pochi), eliminando via via quelli (molti) che non fanno tornare i conti, spianando quindi la strada alla condanna definitiva, con i ringraziamenti dell’assassino.
Aldo Claris Appiani e Lorenzo Marchetti