L’arguto “A sciambere” del 10 agosto come sempre invita a qualche riflessione. Non so se davvero “<…> le uniche vere macerie con cui dobbiamo fare i conti sono quelle di un modello economico che, puntando sulla chimera dello sviluppo infinito e sulla crescita consumistica (prima di tutto del territorio), ha “figliato” una crisi elbana con caratteristiche del tutto nuove per l’isola”: è sicuramente vero che quelle macerie ci sono, e sono drammaticamente evidenti; ma esse sono forse causa forse effetto di altre macerie che le contengono, ovvero l’eclissi della cultura elbana.
Ricordo d’essere stato colpito -oltre quarant’anni fa quando elessi l’isola come nuova ‘casa’- dalla gentilezza e dalla disponibilità senza affettazione e senza servilismo (senza ruffianeria, per l’assessore) dei nuovi miei concittadini; se anzi facevi il cenno di volerli ‘comprare’ –“io pago”, come infelicemente e per casalinga abitudine dicevano arrogandosi chi sa quali diritti di servizio gli ‘ospiti’ del Settentrione- eri certo di ottenere un cortese ma quasi definitivo diniego –“è ‘n lavorone”, la frase corrente e frequentissima in risposta-. Al mio amico Beppino sono debitore delle più chiare lezioni di ecologia applicata –di fronte a un ‘selvo’ di bisquit, ma un po’ piccolo, la subitanea decisione: “quello lo cogliemo giovedì”; di fronte a una vena d’umidità che stillava qualche goccia d’acqua a monte dell’orto in collina, un sapiente canaletto fatto con quattro colpi di zappa e una canna che portava a un vecchio barile di ferro, “e domani vedrai che qualcosa ci annacquamo”; e così per mille altre perle-. Ma potrei ricordare decine e decine di altri amici sapienti. Tutti conoscevano “la montagna” sasso sasso, soprattutto i cacciatori la giravano in lungo e in largo anche a caccia chiusa, e se c’era un masso smottato o un fossetto intasato con un colpetto rimettevano tutto a posto. Sul sentiero delle “Macinelle”, sopra San Piero, alle Filicaie se non sbaglio, c’era una polla d’acqua freschissima, e su una canna piantata in terra un bicchiere di vetro rigirato e pulitissimo, perché chi aveva sete bevesse comodo. E tuttavia quella cultura nativa si incontrava in scambio perfetto con la mia, cittadina, scolastica, libresca. Ma non voglio abbandonarmi alla nostalgia del “bel tempo che fu”.
Eppure, parlo di allora ventenni e trentenni, così diversi dai ventenni di oggi. Che non sono ‘peggiori’, ma semplicemente sono ‘disorientati’. Ecco le macerie. Sono macerie di una cultura nativa, di una educazione trasmessa da sempre, di un modo di esistere e di leggere la propria esistenza in relazione agli altri, su cui è arrivato il bombardamento del “liberismo, tradotto in loco con la forma «libertà di fare quel che cazzo ti pare fottendosene dei bisogni della comunità»,”, del solipsismo assoluto praticato ordinariamente anche da chi non ha idea di cosa sia: quante volte capita di incontrare in mezzo a una strada stretta due macchine, provenienti da sensi diversi, ferme con i conducenti a colloquio indifferenti alle code che rispettivamente si formano dietro; quante volte al parcheggio si trovano occupati due posti invece di uno che sarebbe stato sufficiente; quante volte a tarda ora da macchine in sosta o in moto si sentono musiche ad altissimo volume; e così via dicendo…
Non so se davvero “classi dirigenti e governanti mediamente mediocri, avide, miopi e incolte, come il sonno della ragione abbiano prodotto mostri. Mostri come (falsi) piani di edilizia economica e popolare, demenziali per dimensioni e collocazione territoriale; mostri come l’aver realizzato probabilmente già più del doppio delle ‘tane di Homo sapiens’ necessarie per dare riparo a tutti gli elbani e al numero massimo di ospiti possibili in decenza e dignità, per le dimensioni dell’Elba e per i servizi che ragionevolmente può offrire”. Soprattutto non so, anche in questo caso, quale sia il rapporto di causa e effetto –le ‘classi dirigenti e governanti’ sono comunque scelte dai cittadini per omogeneità riconosciuta di interessi e propensioni-. Certo tutti si sentono più ricchi, e guardano attoniti gli effetti di una crisi dalla quale forse si sentivano immuni.
“C’è meno gente, e non spende nulla”, si sente dire quasi con stizza, come se dipendesse dalla malvagità dei turisti. Quando venivo le prime volte, negli anni ‘Settanta, Marina di Campo era una cittadina elegantissima (e cara): belli gli alberghi e belle le pensioni, bei negozi, bei ristoranti, bei ‘locali’, qualche bella ‘bottega’, buoni servizi, turisti da un mese (e anche da tre), belle barche. E le Frazioni facevano degna corona. Si era realizzato il ‘match’ perfetto fra la domanda e la qualità dell’offerta. Era il segreto del successo e del benessere, come a Capri, come a Ischia, come a Portofino. Lo stesso si poteva dire delle altre cittadine elbane. Poi c’era Viareggio, c’era Rimini, c’era il Lido di Iesolo: altre esigenze, altra ‘domanda’.
Bisognava migliorare quel che c’era: fare più eleganti e accoglienti gli alberghi, spesso nati per progressiva crescita di case divenute pensioni; si trattava di curare l’arredo urbano un po’ provvisorio e un po’ rozzo, perché presto lo stile troppo ‘naif’ avrebbe stancato un pubblico esigente; bisognava migliorare la tradizione locale della cucina – sull’esempio de “La Cava” di Sant’Ilario anni ‘Settanta-, per venire incontro alla curiosità ma anche alla diversa cultura del cibo degli ospiti; bisognava soprattutto ampliare l’offerta turistica alle perle culturali dell’entroterra: i Paesi alti, le chiese antiche, le fortezze e le torri, le testimonianze archeologiche, le risorse naturalistiche –endemismi botanici, faunistici; sorgenti, boschi ecc.-. Offrire alternative alla spiaggia, perché anche d’estate ogni tanto piove o è brutto tempo. Mantenere e migliorare quello standard ottimale per la qualità e per l’‘appeal’ che il territorio proponeva e che era ormai sperimentato: un’‘impresa’ economica, da costruire con intelligenza e professionalità imprenditoriali.
Invece si scelse la via più facile: facciamo venire più gente e saremo più ricchi; costruiamo più case, affittiamo stanze ‘a posti letto’, e chi più ne ha più ne metta. Chi dorme in otto in due stanze non cucina e non fa spesa; mangia pizza, e magari la ‘asporta’, 4,99€ con bibita inclusa; non frequenta negozi, non ‘spende’. Consuma il territorio e le sue risorse, senza ripagarlo e talvolta senza pagare nulla. Bisogna avere sempre più gente per mantenere il livello di entrate, e perciò più camere (sempre più piccole), più case (sempre più frazionate), più parcheggi, più pizzerie, più luoghi di ‘facile consumo’.
Quando poi arriva la crisi, c’è meno gente e non spende nulla. L’economia basata sul turismo di massa funziona così. Il turismo di livello se ne frega della crisi e tiene in piedi l’economia. Ma all’Elba non c’è quasi più: è nemico della troppa gente, e delle pizze da asporto non sa che farsene. Vuole case grandi, in cui ricevere facendo buona figura, ed è costante. Compra nei buoni negozi e mangia nei buoni ristoranti. Gli importa poco di spendere poco, anzi talvolta ci tiene a spendere molto, perché fa immagine.
Può non piacere, può urtare la sensibilità democratica e egualitaria –merce però non molto diffusa da noi-; ma l’Elba ha da proporre alta qualità a chi la ricerca, o da svenderla a chi non sa che farne.
L’impresa turistica, come ogni impresa, ha bisogno di professionalità e di metodo: ricerche di mercato, selezione dei materiali, capacità di ottimizzare prezzi e offerte. Si chiama cultura d’impresa. Abbiamo perso la straordinaria cultura contadina nativa, ma non l’abbiamo sostituita con quella d’impresa: abbiamo pensato che bastasse aprire bottega, e qualcuno sarebbe passato. Dalla ‘nostra’ bottega. Non abbiamo capito che quello che abitiamo è un ‘sistema’, dove nulla può essere spontaneo o improvvisato. O individuale.
Non so se è ora possibile un’inversione di tendenza. Ma dove porta la strada che stiamo percorrendo lo sappiamo.
Luigi Totaro