Franco Cambi, Professore di Metodologia della ricerca archeologica dell’Università di Siena, ha condotto con il gruppo Aithale gli scavi nella zona del Parco Archeologico della Villa Romana delle Grotte. Abbiamo avuto una piacevole e interessante conversazione sul contributo che i reperti di vino, cibo, e prodotti agricoli danno alle ricerche archeologiche, in particolare quelli emergenti dagli scavi recenti all’Elba. Ne è uscita una lunga intervista che affronta molti temi che ci aiutano a capire gli stili di alimentazione del passato, il rapporto con quelli di oggi e anche alcuni temi di attualità. Vi proponiamo due puntate una più in generale sul tema “alimentazione e archeologia” e la prossima sugli scavi nella Rada di Portoferraio e sull’Elba, con particolare attenzione al vino.
Il ritrovamento delle anfore vinarie nello scavo della Rada di Portoferraio e della Villa Romana delle Grotte mi ha dato lo spunto per domandarti quale rapporto può esserci fra ricerca archeologica e alimentazione, quanto i ritrovamenti di resti relativi all’alimentazione possono contribuire alla ricerca?
Noi cerchiamo di applicare un concetto di globalità alle nostre ricerche, nel senso che studiamo certamente i resti propriamente archeologici, quindi le strutture, gli edifici, gli ambienti, i reperti mobili (quelli che familiarmente chiamiamo cocci) ma cerchiamo anche di definire il quadro da un punto di vista biologico. Studiamo, ad esempio, gli ossi degli animali e cerchiamo di ricostruire il quadro non solo dell’alimentazione spicciola ma anche delle possibili attività di allevamento o la presenza della transumanza o una attività molto diffusa quale quella dell’allevamento dei maiali che sappiamo avere avuta una importanza centrale nel medioevo in quanto allevamento brado. Quando troviamo in una normale carta topografica il toponimo “La Porcareccia”, si sa che quel toponimo sta ad indicare che in quella zona c’era un allevamento brado di maiali. Nel periodo romano l’allevamento dei maiali non era soltanto brado ma anche pianificato, si costruivano vere e proprie stalle nelle quali i maiali erano custoditi e venivano fatti riprodurre a scopo sia di consumo interno della villa o del villaggio, ma anche a scopo di profitto, con vendite sui mercati esterni. E’ chiaro che avere un allevamento di questo genere in prossimità di una città poteva avere delle ricadute positive da un punto di vista economico. A partire da un certo momento la carne di maiale diventa, insieme al grano, una delle derrate alimentari fornite dall’Annona di Roma. A Roma si consumava carne di maiale distribuita dall’Annona alla plebe.
Questa attività di allevamento la rilevate perché trovate cumuli di ossa?
Nei casi fortunati troviamo proprio l’edificio per l’allevamento suino. Osservando l’edificio per come è stato ricostruito dagli scavi e leggendo le fonti che riguardano questa attività (Columella, Varrone) si possono precisare meglio le destinazioni degli ambienti (lo spazio per la scrofa e quello per i maialini).
Avranno avuto una specie di mattatoi.
Io ho un carissimo amico e collega che si chiama Jacopo De Grossi che studia questi aspetti legati allo studio delle ossa animali allo scopo anche di ricostruzione dei modi di alimentazione. Jacopo studia anche i pesci. Le spine dei pesci sono veri e propri set di informazione, che aiutano e definire il quadro dell’alimentazione. Poi c’è l’altro capitolo altrettanto interessante della paleobotanica, ovvero l’identificazione negli strati archeologici di semi di vario genere che possono consentire di inquadrare vari aspetti: il primo è la definizione delle tipologie di cereali consumati. Noi sappiamo che nel mondo romano era largamente diffuso il farro, una granaglia che oggi consumiamo perché è tornata di moda. Il farro era il cereale più coltivato in assoluto nell’Italia peninsulare perché poteva essere coltivato sia nei terreni umidi di fondo valle sia nei terreni più difficili a mezza costa o addirittura in montagna. Nell’equipaggiamento del legionario romano il sacchetto di farro era una presenza costante e veniva consumato la sera in forma di zuppa o di minestra con l’aggiunta di altri elementi. Il farro poteva anche essere macinato per poi confezionare schiacce, pani, focacce. Il farro è talmente radicato nella civiltà romana che all’atto della cerimonia nuziale gli sposi celebravano un rito che si chiamava la “confarreatio” che era appunto il consumo insieme di una focaccia fatta con il farro. Poi la radice latina “far” è la radice della nostra farina ma è la radice anche di forno. Il farro poteva essere torrefatto e quindi poi usato in diverse maniere. C’erano molti altri grani perché la biodiversità dei cereali nel mondo antico era molto più ampia della nostra. Non avevano il mais, ovviamente, avevano la segale ma era un cereale nordico. I vari grani avevano tutta una articolazione complessa.
Vista la vastità dell’Impero Romano avvenivano scambi di prodotti, c’era una grossa contaminazione nell’alimentazione?
La contaminazione era molto forte, anche con le grandi produzioni di farro e di altri grani dell’Italia peninsulare. Si verifica un profondo cambio di regime con la trasformazione della Sicilia in Provincia verso la fine del III secolo a.C.. La Sicilia diventa il granaio di Roma e rimane tale fino all’età di Augusto. Quando, nel 31-27 a.C. i Romani conquistano l’Egitto di Cleopatra, a quel punto è l’Egitto che diventa il granaio di Roma. Sicuramente ci fu un arrivo di grano dall’Egitto su scale difficilmente immaginabili e questa importazione dura fino agli inizi del IV secolo d.C. Quando, nel 330 d.C., Costantinopoli diventa capitale, a quel punto il grano dell’Egitto viene dirottato verso Istanbul ed è interessante notare che in quella circostanza torna ad essere importante la Sicilia: viene riscoperto l’antico granaio siciliano. Abbiamo l’integrazione di cereali soprattutto con ortaggi. Nel campo degli ortaggi ci sono specie, a noi molto familiari, che i Romani non avevano (le solanacee). Pensate ad un mondo nel quale non c’erano le patate! Eppure, questo mondo è durato fino al 1500 e oltre. Mancavano anche melanzane, peperoni e pomodori.
Da dove provengono le solanacee?
Provengono dal nuovo mondo. Questi 500 anni, però, non sono stati sufficienti per attrezzarci a digerire melanzane e peperoni (diciamo spesso che sono pesanti). Il nostro organismo non ha ancora finito di completare il ciclo di adattamento alla digestione di questi alimenti. I Romani avevano, però, moltissimi altri ortaggi. Le varie piazze delle erbe, presenti nelle città del nord Italia, sono le eredi dei vecchi fori olitori, le piazze nelle quali si vendevano i vegetali, gli ortaggi di vario tipo, parte consistente dell’alimentazione quotidiana. Poi c’erano ovviamente le uova, i formaggi sui quali non sappiamo molto perché, se la carne lascia tracce in forma di ossi e i vegetali lasciano tracce in forma di pollini o di semi, i formaggi sono più difficili da inquadrare. A volte possiamo trovare dei bollitori ma non è così semplice. Va considerato anche un aspetto non secondario: il mondo della pastorizia è un mondo che rimane piuttosto selvaggio, quasi anti-urbano, connotato da un carattere di marginalità. Molto spesso i pastori erano anche briganti, così come in certe aree i naviganti erano anche pirati.
C’era anche un forte nomadismo
C’era un forte nomadismo e un controllo sociale ridotto all’osso, il brigantaggio nell’appennino ha una scala millenaria. Era una dieta che non conosceva molte delle nostre specie ma che aveva una certa varietà e va considerata la produzione dell’olio, anche quella graduata su diversi livelli qualitativi; diciamo che l’olio universalmente riconosciuto di ottima qualità all’epoca era l’olio della Sabina, poi avevamo una buona produzione di olio nel comprensorio di Brindisi.
Ci sono ulivi pluricentenari
Certo e poi c’erano delle produzioni su grandissima scala in quella che i Romani chiamavano Africa Proconsolare (la Tunisia), nella Libia (o Tripolitania), in Algeria.
A volte nei casi più fortunati possiamo trovare le tracce archeologiche di questa produzione. Ricerche svolte in Tunisia mostrano come ad ogni fattoria romana fossero collegati uno o due torchi oleari. In un altro caso fortunato, nell’attuale Tavoliere delle Puglie, la specifica situazione geomorfologica ha consentito di individuare nelle foto aeree molte tracce significative di abitato (villaggi del neolitico, ville romane, abbazie medievali) e a volte tracce di antichi oliveti. In un caso o due, molto fortunati, sono stati individuati anche i filari dei vigneti sepolti. In una foto sempre del Tavoliere, accanto ad una villa romana si vedono i filari del vigneto con lo stesso orientamento della villa. Quando si ha un ulteriore colpo di fortuna, si riesce a scavare archeologicamente la fossa dell’olivo o quella della vite e ad individuare eventuali resti vegetali che possono essere utilizzati per ricostruire il DNA della varietà.
Addirittura si riesce ad individuare la varietà delle piante?
Queste sono ricerche molto sofisticate particolarmente costose e quindi non tutti i progetti archeologici e non tutti gli istituti di ricerca riescono a farle.
La presenza dell’olivo in Italia da quando la possiamo datare?
Secondo ricerche molto recenti la domesticazione dell’olivo risale al Neolitico. La diffusione della vite è soggetta a degli sbalzi di cronologia. In Medio Oriente, fra la Palestina e Israele, sono stati documentati dei siti con produzioni vinarie nel cuore del III millennio a.C. Da noi il fenomeno è forse leggermente più tardivo. Nel corso del secondo millennio a.C. la vite si diffonde sempre più. Fra il IX e l’VIII secolo sono state ritrovate tombe in cui sono state deposte tazze per bere che alludono probabilmente alla fase nella quale, durante i banchetti, il consumo del latte viene sostituito dal consumo del vino. La cosa interessante è che tazze del genere sono state trovate in una tomba femminile del Lazio antico dell’età del ferro. Sul tipo di diffusione sociale del consumo del vino ci sono una serie di ipotesi e di interpretazioni anche abbastanza contrastanti fra loro. Quello che noi chiamiamo “vinum” non sarebbe stato in realtà un vino puro consumato in certi ambienti ma un vino leggermente annacquato usato nei banchetti nei quali erano presenti le donne. La parola “simposio”, che deriva dal greco, sta ad indicare l’atto del bere insieme: bere vino era un rito collettivo, più che familiare, legato ad una specie di ritualità. Il vino puro, che probabilmente corrisponde alla parola latina “temetum” era consumato o nelle cerimonie religiose o nei simposi fra uomini, fra guerrieri, fra uguali. Esistevano categorie diverse e non sempre si riesce ad inquadrare bene il fenomeno. Sono attribuite a Numa Pompilio, il secondo Re di Roma, alcune disposizioni riguardo al consumo del vino. Si dice che Numa, sul finire dell’VIII secolo a.C., avrebbe vietato il consumo del vino alle donne. Questo è interessante perché, evidentemente, l’introduzione del divieto sta a significare che, fino a quel momento, le donne potevano bere vino. Qualcuno dice che il divieto riguardava il vino puro, il “temetum” e non il “vinum” annacquato. Il vino è, in età arcaica, anche un oggetto di prestigio, è oggetto di dono, da un aristocratico ad un altro che poi doveva replicare con un altro oggetto di prestigio: un’arma, un elmo, un cavallo, un vaso prezioso. In queste forme rituali avviene una sorta di riconoscimento rispettivo del rango del donatore e di chi replica. Quando leggiamo nell’Odissea che Ulisse porta a Polifemo il vino che lui aveva ricevuto in regalo dalla popolazione visitata in precedenza, quello è un sistema del dono. Il dono di Ulisse è per certi versi ambiguo e maligno. Quel vino, dice Omero, era talmente forte che doveva essere diluito in cinque parti d’acqua e Ulisse, a Polifemo, lo serve puro perché vuole farlo addormentare per poi accecarlo. Fenomeni di questo tipo sono ben attestati dal punto di vista archeologico. Nel VI secolo a.C. la Gallia meridionale, attuale Provenza, è piena di anfore vinarie etrusche sia perché c’era un certo traffico mercantile sia perché i Galli erano famosi per la loro propensione al bere e quindi il dono di un’anfora di vino etrusco fatto ad un gallo era un dono importante.
Valter Giuliani http://www.elbataste.com/