Dice che l’età non conta. Conta, conta! C’è voluto un sindaco trentenne a rompere il silenzio delle Istituzioni elbane sul dramma dei ‘profughi’, dei ‘migranti’. Poche frasi, pacate, istituzionali, serie, per smuovere la calma piatta di ‘fine stagione’, e aprire una finestra sul mondo, che è un po’ più grande della nostra bellissima isola. Non possiamo che rallegrarcene.
Chi, come me, non è né giovane né sindaco può aggiungere qualche altra considerazione non ‘istituzionale’ e non pacata. Perché molti dei commenti che i ‘social network’ infaustamente regalano manifestano un più o meno consapevole disconoscimento della realtà.
‘Profughi’ e ‘migranti’ –con le acute sottodistinzioni di “economici” e “politici” (a questi ultimi soltanto spetta l’“accoglienza”)- non sono figure occasionali, contingenti: sono avanguardie di una migrazione che, come già altre nella storia umana, ha e avrà dimensioni e durata importanti. Le cause scatenanti non sono ignote: guerre e povertà che questi sventurati cercano di lasciarsi alle spalle sono state puntualmente generate da scelte politiche, economiche, strategiche –geopolitiche, come si dice oggi- compiute dalle nazioni (le nostre) che ora cercano di raggiungere, e alle quali chiedono, per ora sommessamente, di restituire loro le condizioni di vivibilità crudelmente sottratte nei decenni, nei secoli trascorsi. Per ora sommessamente; se non saremo attenti, potrebbe andare peggio: gli esecrandi comportamenti dello “Stato Islamico” dovrebbero esserci di ammonimento. Il gioco del gatto col topo, praticato per anni allo scopo di impadronirci delle risorse naturali dell’Africa –o dell’America latina, su un altro scacchiere-, creando e cacciando sovrani, raìs, caudillos, governi, Stati “usa e getta”, ha avuto come effetto collaterale l’impoverimento assoluto e ormai non più sopportabile di due Continenti. E allora le popolazioni “migrano” dove esiste una ricchezza diffusa comunque esageratamente più grande, sulla quale proiettare qualche speranza.
Da parte nostra, dunque, non è questione di mettere in campo tanto la “carità” –che è sempre cosa buona e giusta-, quanto di rimediare alle malefatte commesse, e cercare di restituire quanto possibile il maltolto, riequilibrando gradualmente le condizioni di vita di tutti. Bene dunque la “carità” e ogni sforzo di accoglienza delle Istituzioni nel momento dell’emergenza. Ma il problema vero è di immaginare scenari geopolitici nuovi, assetti diversi dell’economia, dal livello planetario a quello personale.
Quel che ci si presenta davanti agli occhi ogni giorno è frutto di una concezione della vita e della politica che mette al primo posto i vantaggi che nell’immediato si possono trarre dalle situazioni –ci si impossessa in qualunque modo di un territorio (anche quello in cui si vive, purtroppo), e si sfrutta finché è possibile-, senza considerare le conseguenze a più lungo periodo. E’ una concezione malata di miopia intellettuale e culturale, che restringe il campo visivo al ‘qui e ora’, e si nutre di nazionalismo, di campanilismo, di folklorismo, di familismo e di ogni corrispondente forma di sciovinismo: “prima i miei familiari, i paesani, i contradaioli, i concittadini, i connazionali, quelli della mia squadra di calcio o del mio gruppo sportivo; poi gli altri, se proprio si deve”. Non credo che in fondo si tratti di razzismo: gli sceicchi, a differenza dei poveri, sono sempre ben accolti –anche all’Elba, quando arrivano con i loro grandi Yacht-; e volentieri gli ‘arabi’ si accettano come soci di grandi affari. E’ piuttosto attaccamento a quel che si “ha” per difetto di percezione di quel che si “è”; attaccamento a una superiorità fatta di una presunta propria ricchezza anche quando è esigua, o anche solo posseduta per interposta persona, da qualcuno del proprio gruppo –vedi il caso Berlusconi; o quello dei ‘patròn’ delle squadre di calcio (“abbiamo” comprato il tale o talaltro giocatore)- purché ci permetta di sentirci ‘di più’ del competitore. Indice chiaro di tutto questo è, mi pare, il venir meno della dimensione “politica” a favore di quella “privata”: “io penso per me e i miei; facciano così anche gli altri”. Il tutto schiacciato in un presente senza passato e senza futuro.
In ambito privato tutto ciò lascia almeno emergere la dimensione della carità, anche della carità laica, naturalmente: nobile atteggiamento, ma sempre “privato”, rivolto ai sintomi (e non è poco) ma impotente nei confronti delle cause; necessario, provvidenziale, ma provvisorio. E poi la carità deve essere cieca e muta: la parola greca da cui deriva, chàris, tradotta nel latino gratia, implica l’idea della gratuità (per grazia=gratis), del dare senza nulla chiedere, senza domandare, senza verificare l’uso che viene fatto da chi riceve. E’ amore senza condizioni e senza ragioni. Diverso dalla pìetas, che in fondo riceve gratificazione dal fatto stesso che la si esercita.
Nel caso dei disperati che cercano l’Occidente come loro paradiso, non si tratta tanto di donare per charitas o per pìetas (che fanno comunque bene), quanto di restituire ciò che l’Occidente ha rapinato generando le condizioni attuali, che costringono alla presente migrazione. E la risposta di lungo periodo non può essere l’accoglienza, utilissima nel breve; ma l’elaborazione di un progetto di mondo che apporti al modello presente variazioni assolutamente stravolgenti, ovvero l’adozione di un paradigma di valutazione fondato sull’essere e non sull’avere, sulla capacità di incontrarsi invece che di scontrarsi, sulla sinergia e non sulla competizione.
Non possiamo chiedere a dei sindaci di elaborare questo progetto, perché la loro funzione li lega strettamente al governo del presente (“pro tempore”, si dice del loro mandato). Ma di concorrervi in quanto possano, questo lo possiamo chiedere: e cioè di capire che a partire dal presente è fondamentale trasmettere ai concittadini elettori la consapevolezza della vastità del mondo di cui fanno parte oltre i confini territoriali; la percezione e la condivisione dei problemi grandi di tutti; la certezza che la divisione esasperata degli uomini in individui in competizione fra loro è l’arma più raffinata di chi vuole avere sempre di più per mantenere posizioni di vantaggio.
“Extra Ecclesiam nulla salus” dicevano gli antichi cristiani: fuori della Comunità non c’è salvezza. Accoglienza e carità sono da sempre state le pietre angolari della Chiesa. Potranno essere certamente utili anche a costruire un mondo nuovo. Ma è a questo che dobbiamo cominciare subito a pensare.
Luigi Totaro