A 99 anni, il famoso attore che fino al 2016 ha calcato le tavole dei palcoscenici (lo ricordiamo ai Vigilanti nel dicembre 2014 con 'Farà giorno') può ben dirsi il testimone di un secolo e davvero c'è da essere grati alla figlia Enrica, sociologa, per aver raccolto queste memorie in un libro che – chiosa con efficacia lo storico Luciano Zani nella postfazione- "sfugge ad ogni catalogazione di genere e affronta con penna leggerissima e godibilissima i grandi temi della vita, della morte, del teatro e del potere”.
E la passione per il teatro è nata presto in Gianrico, nato e vissuto a Milano in una 'casa di ringhiera' (quelle con acqua e bagno fuori, in comune con altre famiglie), a 9 anni quando con lo zio vide 'Gli spettri' di Ibsen e poi continua a seguire da solo le 'stagioni', che in quegli anni non si pagava per i posti in piedi.
Poi, studente e giovane sottotenente nella guerra mussoliniana in Grecia, con tre libri di filosofia nello zaino che, tanto, doveva essere una passeggiata e poteva anche prepararsi l' esame, e poi l' 8 settembre, il rifiuto di aderire a Salò e la deportazione nel campi di concentramento per ufficiali 'resistenti' di Lipsia, Benjaminow, Sanbostel, Wietzendorf fino alla liberazione.
Fatte le debite differenze con i campi di sterminio, la vita per gli Internati Militari Italiani, com'è oggi noto, soprattutto per chi rifiutava ogni collaborazione con i nazisti, compresa quella del lavoro che avrebbe garantito il cibo, era fatta anch' essa di sofferenza, soprusi, malattia, fame, freddo e morte.
Ed è in questa cittadella di seimila italiani internati e affamati, in baracca con giovani che sarebbero diventati alcuni tra gli intellettuali più importanti del dopoguerra (Rebora, Guareschi, Natta, Lazzati, Coppola), si allestisce un palco e Gianrico Tedeschi (già l'ironia di portarsi un simile nome in quel frangente la dice lunga sulla resilienza di cui furono capaci) rappresenta l'Enrico IV di Pirandello, metafora sulla saggezza e la follia.
E questi ricordi, impossibili da cancellare (e per decenni anche da ricordare), occupano circa un quarto del volume, ma sono presenti-inevitabilmente- sottotraccia nell'intera carriera dell'attore che, finiti poi gli studi all'Accademia Silvio d'Amico grazie anche -ricorda- all'aiuto del Convitto Scuola della Rinascita (iniziative di sostegno per partigiani e reduci impiantati in molte città da Luciano Raimondi), inizia subito a lavorare con le maggiori compagnie e nei teatri d'italia e d'Europa, compreso quello di Strehler, memore della battuta 'a soggetto' che gli era venuta nell'"Arlecchino servitore di due padroni" di Goldoni, quel "semplice, buttato via, moderno” che pronuncia il suo personaggio Pantalone, capocomico che dava istruzioni ai propri attori di come recitare senza enfasi e retorica; una intuizione fantastica che strizzava l'occhio allo spettatore uscendo in quel modo dal testo.
Poi una carriera infinita che è storia del teatro, di registi e attori e attrici, fino alla deliziosa intervista finale alla coetanea (di Gianrico) Franca Valeri, un altro sguardo di chi ha visto tutto della recente storia d'Italia, del teatro e delle sue trasformazioni.
CR