Molti dicono che sono un pessimista; rispondo che il mio è un pessimismo ragionato, basato su una buona conoscenza e soprattutto su quarant’anni di esperienza trascorsa nelle corsie degli ospedali e nei Pronto Soccorso, che mi hanno reso sicuramente più vecchio, ma anche più esperto. Nella serata di lunedi 9 marzo i media hanno usato ufficialmente la parola pandemia, quella che da tempo usavo per sollecitare parenti e amici ad una particolare prudenza, a non sottovalutare il problema del Conavid 19, la sua rapidità di diffusione e l’indice di mortalità, che non è quello della banale influenza invernale.
Ma non è questo il problema.
Quello che mi ha disgustato della nostrana politica è stata la frase, ripetuta fino alla noia, “non lasciamoci prendere dal panico”, associata anche alla presentazione di facce sorridenti che dicevano: “anch’io ho il corona virus!”. Imbecilli! Così l’epidemia è divenuta pandemia, una parola che non solleva in molti le adeguate preoccupazioni perché non ne conoscono il significato, o quantomeno le reali conseguenze sanitarie, economiche, e la necessità del profondo mutamento del nostro stile di vita.
Ma non è neppure questo il problema.
Quello che più mi ha amareggiato, sicuramente perché mi coinvolge direttamente, è che nell’accezione comune si è fatta strada che l’infezione prediliga gli anziani, e con patologie intercorrenti. Ed è questo che sistematicamente i media hanno fatto, e continuano a far notare: il dato anagrafico e le complicanze già presenti, a giustificazione dell’evento finale. E così, con il nobile scopo di rassicurare le masse, giustificare la situazione corrente, e una morte da coronavirus, abbiamo sentito sempre più spesso l’espressione “sì, ma era anziano”, o “era affetto da patologie pregresse”, con lo scopo evidente di rassicurare chi anziano non è. Uno scopo nobile, forse, ma cretino, perché non certo capace di impedire ciò che doveva essere impedito: la trasformazione di una epidemia in una pandemia; ed è successo quello che era inevitabile con queste premesse.
Allora vorrei ricordare a tutti, in primis ai nostri governanti, ma forse è bene ricordarlo anche a chi oggi, all’occorrenza, è chiamato a gestire la nostra salute, che quando muore un paziente, non muore solo un anziano, muore un papà, o una mamma, o un nonno o una nonna, o una persona alla quale altri hanno legato i ricordi e gli affetti della loro vita, con i momenti di felicità e di sconforto, di ansia e di gioia. Quando muore un anziano muore anche una parte di un giovane che rimane, una mutilazione che solo il tempo potrà guarire, forse.
Cari amministratori della cosa pubblica, ricordatevi che non vi potete permettere di gestire gli ammalati come un codice, un protocollo, o un numero, perché sono persone, persone che amano, che guardano crescere i figli, i nipoti, e gioiscono per i loro successi, e soffrono, come loro e più di loro, per le avversità che la vita gli fa incontrare. Un paziente è sempre un uomo o una donna; è sempre una persona con i suoi sogni, le sue aspirazioni e i suoi progetti, che non si legano affatto al suo dato anagrafico. Ed è questo ciò che siete chiamati a governare e a curare.
Ma sarà bene ricordare che oggi tutti sono più fragili, anche chi non ha ancora il privilegio di essere anziano, e tutti dovremmo sentire il peso di questa fragilità, dell’ansia e delle preoccupazioni che ne scaturiscono, fino ad arrivare, tutti, a quello che è sempre stata un’utopia: il rispetto per le leggi dello Stato.
Luciano Rossi