La regina degli scacchi, la fortunata serie televisiva più vista in Italia durante il lockdown è la storia di un riscatto sociale e umano dove la protagonista, una bambina orfana, comincia a muovere le torri e gli alfieri all’età di 9 anni con il custode dell’orfanotrofio.
La premessa per parlare del possibile progetto, in itinere, tra la direzione della Casa di Reclusione di Porto Azzurro e l’Associazione Dialogo di Portoferraio, di portare la pratica degli scacchi nel carcere elbano con lo scopo di aiutare la popolazione detenuta ad orientarsi nella società una volta terminata la pena, favorendo la socialità, il rispetto delle regole, la capacità di gestire il tempo, e altre doti utili.
Il gioco immortale, come sono conosciuti gli scacchi, che fanno capolino anche nel Paradiso di Dante, sanno dare la gioia della vittoria, l’amarezza della sconfitta, la tensione della fase decisiva, la fierezza della mossa giusta, il rimpianto di non esserci riuscito. Bisogna sgombrare il campo dal pregiudizio che gli scacchi fanno diventare più intelligenti, è vero il contrario, le persone intelligenti apprezzano gli scacchi.
Attraverso l’insegnamento degli scacchi in carcere, si cerca di sviluppare l’autoriflessione tra i detenuti, la capacità di fermarsi durante quello che si sta facendo per riflettere, per capire se davvero è coerente con il fine che si tenta di raggiungere oppure no, insomma, la capacità di non agire impulsivamente, si impara a pensare, a riflettere sul motivo per cui si agisce in un certo modo. Inoltre, serve a capire che le stesse cose le puoi fare in modo differente con strategie diverse, e ogni strategia ha i suoi vantaggi e svantaggi. Con gli scacchi si impara a non dare la colpa agli altri dei propri errori, dei propri insuccessi, nei giochi di carte si può parlare di sfortuna, nel calcio si può dare la colpa all’arbitro, negli scacchi, se vinci o perdi è solo merito o colpa tua.
In un ambiente multietnico come il carcere, gli scacchi, grazie alla loro universalità, possono diventare un linguaggio comune tra i detenuti che fanno fatica a socializzare tra loro perché non parlano la stessa lingua o parlano male l’italiano, in tale contesto il gioco ha una valenza aggregativa, perché permette di rompere il ghiaccio anche con persone con cui in altro modo non è possibile comunicare.
Nel pianeta carcere, dove le libertà sono sospese e le scorie della rabbia dominanti, attraverso l’insegnamento degli scacchi si cerca di aiutare i detenuti a controllare la violenza che si manifesta. Gli scacchi in quanto socializzanti, permettono di sperimentare nuove relazioni sociali tra la popolazione detenuta multietnica in un contesto educativo in cui vige il principio di uguaglianza, dove i giocatori sono posti sullo stesso piano, non c’è un vincitore a priori. I ruoli non sono statici, in ogni partita tutto viene rimesso in gioco, si può vincere e si può perdere, nessuno è invincibile né onnipotente, anche le potenziali vittime, possono sperimentare sulla scacchiera successi e innalzare, in questo modo, la propria autostima.
Negli scacchi prevale la forza delle idee, il rispetto dell’avversario, il controllo del proprio istinto, delle proprie emozioni, si è responsabili delle proprie mosse e delle conseguenze sul piano del gioco, durante la partita si alterna l’attacco e la difesa, si conoscono i propri limiti ma anche le proprie potenzialità, si sceglie di chiamare l’arbitro e far rispettare le proprie idee.
Infine, ma non per ultimo, gli scacchi hanno la potenziale funzione rieducativa sancita dell’art. 27 comma 3 della Costituzione (le pene…devono tendere alla rieducazione del condannato…), per questo dovrebbero essere presenti, obbligatoriamente, in ogni istituto penitenziario italiano.
Enzo Sossi