Non racconto niente di nuovo se dico che l’attimo in cui prendi in braccio tua figlia per la prima volta lo ricordi per sempre. Io ricordo la paura, la goffaggine, l’emozione, il peso della nuova responsabilità. E’ indiscutibilmente un’immensa gioia accompagnata però anche da una felice sensazione di inadeguatezza. Quando ci penso sorrido e mi rivedo giovane a cullare lei e le mie paure.
Ogni volta che la prendevo in braccio da piccola mi sentivo potente, forte. Avevo la presunzione che tra le mie braccia mia figlia sarebbe stata sempre al sicuro. Scommetto che tanti come me in quell’abbraccio abbiano fatto la mia stessa promessa: “Non ti accadrà mai niente di male”. E quando lo dici, ci credi non ti sfiora neanche l’idea che non possa essere così.
Al contrario, dell'ultima volta in cui si riesce a prendere in braccio una figlia invece normalmente non si ricorda niente. Cresce impara a camminare sulle proprie gambe e non ti salta addosso correndoti incontro. Quando comincia a tirarla su con fatica, sei tu stesso a dire: “no basta mi fa male la schiena, ora sei grande”.
Io invece le ultime volte le ricordo tutte, quelle che speravo fossere le ultime volte. Le potrei elencare. Ricordo bene le telefonate, le corse a scuola, in palestra o a casa di un’amica. La scena è sempre la stessa: lei che piange piegata, contorta da un dolore sconosciuto, che non ha ancora un nome. All’improvviso dentro di lei si accende un interruttore o si spegne, questo ancora non l’ho capito, e il dolore la investe, corpo e anima. Si gettava a terra e non aveva più niente della sua riservatezza adolescenziale, il panico sovrastava il pudore e lei era totalmente posseduta da quella sofferenza fisica. Veniva strappata a momenti della sua giornata, alla quotidianità della sua età, così senza preavviso, ma soprattutto senza spiegazione medica. E io correvo a prenderla e la tiravo su perché era incapace di camminare.
Io oggi mi rivedo con mia figlia in braccio a percorrere il corridoio della scuola, ed è un corridoio lunghissimo. Mi vedo all’ingresso della palestra, lo vedo affollato da persone che come me non capiscono. Nei ricordi rifaccio le scale di casa dell’amica e le ricordo infinite. Il peso che sentivo e sento non era il peso del suo corpo, era il mio enorme senso di impotenza. Un groppo allo stomaco per il suo dolore e anche per gli sguardi delle persone che assistevano a quegli episodi. Io chiedevo consigli ad amici, ci rivolgevamo a professionisti e nessuno ci ha realmente aiutato. Ero preoccupato e non avendo una spiegazione medica, mi sentivo addosso il peso di tante parole, dette forse anche per rassicurare. Frasi tipo “Ma non sarà un po’ esagerata?”, “Ma non deve fare queste scene a quell’età, ti devi imporre”, “Soffrono tutte per per le mestruazioni all’inizio”, “Forse cerca attenzione e voi la assecondate un po’ troppo”, “il suo è un malessere sociale”.
Mi sentivo inadeguato, la prendevo in braccio e scappavo via con lei. Ma quella presunzione che avevo, basta un abbraccio e tutto il male del mondo scompare, cedeva di fronte alla realtà.
Di fronte al dolore di una figlia si è tutti inadeguati e siamo sempre impreparati. Finché non abbiamo dato un nome a quella presenza che muoveva i fili della vita di mia figlia, mi sono logorato di domande inutili: perché, come è possibile, cosa ho sbagliato.
Dopo la diagnosi di endometriosi, posso dire di essermi sentito sollevato, ma solo in parte. Sono sollevato perché mia figlia ha cominciato a ricevere le cure che la stanno aiutando. Scommetto però che, se non fosse successo a me, anche io avrei avuto gli stessi pensieri. Avrei detto le stesse frasi ad un padre che mi racconta delle corse continue per andare a prendere la figlia, che soffre di dolori ciclici a cui nessun medico trova una spiegazione.
Oggi io so e mi vergogno, perché ammetto che una voce dentro mi diceva che forse stavo veramente sbagliando qualcosa nella sua educazione. Anche se con la madre eravamo sicuri che ci fosse una spiegazione medica, avevo il dubbio che forse nel nostro modo di volerla proteggere, la stavamo veramente assecondando e il suo era un “un male sociale” della sua età. Mi è venuto si questo dubbio e non ce l'ho con chi oggi non si rende conto del male che fa. Quelle frasi, parole che volevano confortare, hanno alimentato il dolore.
Se un genitore prende in braccio la figlia adolescente, che non si regge in piedi dal dolore, non si dovrebbe pensare che il dolore sia normale. Non si dovrebbe cercare il modo di renderlo sopportabile o tacerlo, perché sconveniente per la società.
L’endometriosi è attaccata ai passi di mia figlia. E’ parte di mia figlia. Grazie a chi ha capito, grazie a chi si sta impegnando per sostenere la diagnosi e anticipare il percorso di cure, a chi vuole rompere il silenzio, grazie a queste persone oggi mia figlia e la sua endometriosi camminano a testa alta con orgoglio.
Oggi non hanno più bisogno che le prenda in braccio. Sono pronto a farlo però, per sostenere mia figlia e quei genitori, che combattono contro “mali invisibili”. Nella loro lotta fatta di silenzi e difficoltà, c’è una voglia di cambiare il modo di vedere il dolore, che mi riguarda. Mi riguarda liberare delle donne come mia figlia dal senso di colpa, perché ritengo che questa sia l'unica sua sofferenza che io come genitore posso lenire.
Oggi l’unico malessere sociale che conosco è l’indifferenza alla sofferenza altrui.
ROBERTA per EndoElba