Ad Andrea Galassi non si può non rispondere. Non si può lasciar cadere così un pensiero tanto profondo, e scandito da molti articoli, che meriterebbe, presso noi scoglio-nati, condivisione, confronto, anche polemica ove necessario. Premetto che non sono in grado di confrontarmi con lui sui dati, precisi e inoppugnabili, che fornisce sulla deriva del paesaggio elbano negli ultimi decenni. Condivido, però, tutto quello che dice, soprattutto il suo pessimismo, pur cercando di temperarlo con l’ottimismo, manifestato da Sergio, verso le nuove generazioni e verso una nuova (fase di) Resistenza.
Sono fra quelli che pensano che resistere si debba, quando non tornano i conti, e che la resilienza, osceno neologismo, sia essenzialmente un modo per dire: adesso vi arriva una fregatura ma state fermi e non fate casino, poi passa.
La resilienza ci fa accettare lo smantellamento del welfare state in Toscana (e altrove), l’installazione della nave rigassificatrice a Piombino, la centrale geoelettrica senza tutele in Val di Paglia, i traghetti con mezzo secolo di vita all’Elba, un avventuroso aeroporto a Campo…
La Resistenza, forse, costringerà il governo di un grande paese a sospendere una riforma pensionistica che il popolo (resistente) non vuole.
Un tempo fummo maestri di Resistenza (meglio di noi fece soltanto la Jugoslavia). Oggi, passivi, inerti, infiacchiti, assistiamo all’esproprio di tutti i beni che dovrebbero essere comuni e al prevalere dell’interesse privato. Tutto passa sopra le nostre teste.
Ma è proprio dalla chiusura del contributo di Andrea che voglio ripartire. La fiducia nelle nuove generazioni si scontra, in effetti, con un degrado della qualità del pianeta (e dell’isola…) che appare oggi più veloce di quanto pensassimo. Certamente la fiducia va riposta in chi oggi ha vent’anni, non in chi, quarantenne o cinquantenne, manifesta una visione della vita e del mondo ancora più esclusiva ed egoistica (lo sviluppo recitato come mantra) di quella di noi boomer, giustamente criticati.
Il fatto è che, a un certo punto, si è verificato uno strappo, tanto imprevedibile quanto, forse, necessario. Lo dico da padre di due figli di ventidue e diciotto anni, incuriosito e preoccupato: sono diversi da noi. Noi siamo stati relativamente più simili ai nostri padri e madri, nonni e nonne, di quanto i nostri figli lo siano a noi. Alle due generazioni che ci hanno preceduto ci legano forme mentali e modi di ragionare per grandi categorie e grandi sistemi ideali, forse ancora un po’ ottocenteschi (marxismo, liberalismo, cattolicesimo). La generazione a cui abbiamo dato vita ha altri modi di pensare, altre finalità, altri valori, altre aspirazioni. E ci pone una domanda che crea smarrimento: quanto e perché loro debbano sforzarsi per capire noi e quanto e perché noi dobbiamo sforzarci per capire loro? L’unica certezza che ho è che non si deve giudicare, tantomeno utilizzando le nostre ottocentesche categorie, per noi così consolatorie, per la generazione a venire imbarazzante anticaglia da portare quanto prima in discarica.
Anche in questo caso l’atteggiamento peggiore che si possa osservare è quello dell’anziano esperto che solo lui sa come vanno fatte le cose. E allora, che cosa dobbiamo fare, lasciarli sbagliare? Nemmeno questo è buono. Ragionare si deve.
È un dato di fatto, che chi ha meno di trent’anni oggi venga percepito come una fastidiosa incombenza. I giovani sono scomparsi dalla nostra visione di futuro. Tre anni fa si parlava di NextGenerationEU…qualcuno se ne ricorda ancora? Era lo “strumento temporaneo per arrivare a un futuro più verde, più digitale, più sano, più uguale, più forte”.
È diventato tutt’altro: il Piano Nazionale di Ripresa e, purtroppo, anche di resilienza. In buona sostanza è stato detto: cari giovani, scordatevi il verde-digitale-sano-forte-uguale, vi diciamo noi che cosa serve davvero: pontisullostretto, portiallungatieallargati, energiaprodottaconilfossile, aeroportiacampo eviadicendo, scordatevi che possano esservi sostenibilità ambientali e convergenze culturali, quello che va bene per noi deve andare bene anche per voi.
Non si tratta soltanto di un ulteriore, colossale, furto di futuro. Si tratta, anche,
di una sorta di gioco sporco nella comunicazione che sposta il dialogo intergenerazionale dalla condivisione culturale ad una, appunto, contrattazione burocratica di cui parla Galassi, peraltro farraginosa. Nessuno, fra chi dovrebbe, fa più politica, né gli umani né le istituzioni da essi costruite. La politica la fanno le imprese, i gruppi di potere, le associazioni di interesse per proprio conto ed è una politica scadente, che non prevede né i cittadini né la collettività (nelle molteplici declinazioni possibili) ma ha soppresso il concetto di bene comune e ammette solo il produttore e il consumatore.
A un certo punto, i figli dovranno prendere una decisione: o resistere a questo declino culturale (che diventerà presto sociale ed economico) o andarsene verso mete che ancora conservino un po’ di umanità.
Quel che è certo è che i margini per la costruzione di un dia-logo (cosa diversa da un mono-logo) vanno riducendosi, anche loro più rapidamente di quanto pensassimo, proprio come avviene per la sostenibilità ambientale.
Meglio essere predisposti a un buon ascolto che parlare per convincere a tutti i costi.
Franco Cambi