Ciao a tutti.
Mi chiamo Beatrice ed ho 35 anni, vivo all’isola d’Elba a Portoferraio.
Racconto un episodio che mi è accaduto di recente, ma che ha contribuito ad alimentare una "tela" intessuta da frustrazione, dolore, stanchezza, sopportazione. Sensazioni che provo da molti anni.
Scelgo oggi di raccontare e raccontarmi come mai ho fatto prima in vita mia poiché ho compreso che di fronte l’ingiustizia non sono in grado e non ho voglia di tacere.
Quando avevo quattordici anni mi è stata diagnosticata una colite ulcerosa, malattia che ha influenzato ogni aspetto della mia vita.
Soggetta molto spesso ad acutissime infiammazioni ed improvvisi forti dolori, ho cercato di districarmi fra le situazioni nelle quali fin da ragazzina mi sono ritrovata, tentando di mascherare anche solamente il disagio e la vergogna di entrare in un bagno di scuola.
Era l’inizio degli anni 2000 e di colite ulcerosa si sentiva parlar poco e superficialmente.
Ricordo perfettamente come al liceo mi trovassi costretta quasi a “scongiurare” i professori di credermi, portando loro materiale informativo che spiegava la mia indisposizione.
Oggi quando vedo in televisione, per puro caso, una pubblicità di sensibilizzazione sulla colite ulcerosa, non nascondo mi si gonfi il cuore; quasi come se la ragazzina che ero ottenesse finalmente una briciola di ascolto, di riconoscimento.
Durante gli attacchi più forti mi capita di non riuscire fisicamente ad alzarmi ed arrivare al bagno in tempo, al posto delle feci nella maggior parte dei casi vi sono solamente grossi cumuli di sangue.
Cerchi di svuotarti ma non ci riesci, sembri covare dentro di te spranghe di ferro. La pancia tira e si gonfia come un palloncino. Non hai idea di come liberartene. Per tante volte in vita mia mi sono sentita dire di essere esagerata, di fingere, di non aver niente più di un mal di pancia.
Oggi per fortuna non è più così. Tanti passi avanti sono stati compiuti verso il riconoscimento di certe malattie, come per esempio l’endometriosi negli ultimi anni.
Tutto ciò ovviamente mi rende più serena e mi conferisce nuove speranze, le stesse alle quali mi avvinghio adesso per scrivere questa mia testimonianza.
In data Martedì 6 Febbraio 2024 ho avuto un forte attacco intestinale, uno di quelli che descrivevo sopra. Credevo di riuscire a sopportare il dolore, ma poi mia madre e mia sorella mi hanno convinta ad andare al al pronto soccorso. Erano più o meno le 22.
Ero in pigiama, la borsa dell’acqua calda attaccata alla pancia, non riuscivo a stare dritta. Una volta davanti all’ingresso del pronto soccorso ho suonato il campanello, ho atteso l’apertura delle porte e sono entrata.
Mi sono seduta all’accettazione. Vi era una giovane infermiera la quale mi ha chiesto che cosa avessi. Prima di tutto le ho dichiarato di avere la colite ulcerosa, ho continuato elencando tutte le informazioni possibili, le ho stilato la lista di tutti i medicinali che prendo.
Infine le ho spiegato che pochi giorni prima il Dottor. Palombo di Portoferraio, lo stesso che mi ha scoperto la malattia da ragazzina, mi aveva fatto un’ecografia, dalla quale era risultata solamente una consistente infiammazione nella parte bassa del retto.
Ero comunque preoccupatissima, non riuscivo nemmeno riprendere fiato dall’agitazione. Non comprendevo il mio malessere poiché assumevo non poco cortisone. Sono arrivata a pensare di poter avere una emorragia. Avevo paura. La mia paura era palpabile, nitida, evidente.
Ho cercato di produrre tutte queste informazioni in fretta, avevo bisogno di aiuto, avevo bisogno di rassicurazioni, avevo bisogno che qualcuno mi dicesse: "Stai tranquilla, adesso ci siamo e ci occuperemo di te".
L’infermiera mi guarda e con aria visibilmente scocciata mi domanda :”Ma non hai il referto?”.
La sua era una domanda correttissima, poiché comprendo vi siano degli step da seguire in queste situazioni.
Le rispondo di no, che non lo avevo. Quello del Dottore era stato un piacere dell’ultimo secondo, mi aveva sentita spaventata, nel panico, e mi aveva aiutato il prima possibile come ha potuto.
Comunque no, io quel foglio non lo avevo.
A quel punto ella ha sbuffato un’asserzione del tipo “Eh vabbè senza referto che dobbiamo fa’”.
Mi ha poi detto di stendermi sul lettino per effettuare giustamente il controllo iniziale di routine.
Al tempo stesso però stava continuando a commentare con tono annoiato la mancanza del referto, per poi profferire, sempre con lo stesso atteggiamento: “Ma non ti ha nemmeno prescritto una Tachipirina?”.
In quell’istante mi sono domandata se fosse una presa in giro bella e buona, non comprendevo se ella avesse afferrato ciò che le avevo descritto il più minuziosamente possibile, che avevo la colite ulcerosa e non un’unghia incarnita, che ero terrorizzata mi stesse accadendo qualcosa che non conoscevo, che nutrivo la necessità di sentimi al sicuro e non trattata come una bimba ingenua e capricciosa.
A quel punto presa dalla stanchezza, dallo sdegno e dall’incredulità, mi son alzata in maniera sgarbata, dileguandomi con una maleducazione non da me, generata però da una tanto insensibile “accoglienza”.
Ho chiamato mia sorella e siamo tornate a casa. Dopo aver raccontato l’accaduto a mia madre, ella ha scelto di recarsi al pronto soccorso (accompagnata da mia sorella minore) per protestare contro quella che le pareva un'ingiustizia, sottolineando che non lo faceva solo per me, ma per tutti coloro che hanno vissuto e vivono simili situazioni.
In maniera cauta si sono confrontate, l’infermiera le ha spiegato che me ne sono andata infuriata e che lei mi aveva solamente posto domande di routine.
Durante la discussione si è pero intromesso un medico presente nella sala, dichiaratosi responsabile del pronto soccorso, un giovane dai capelli lunghi, privo peraltro di cartellino identificativo.
Egli ha testualmente detto a mia madre che non le permetteva di dire certe cose, che la struttura ospedaliera di Portoferraio è efficientissima e tutto il personale si mostra cordiale e disponibile.
Il medico ha inoltre asserito, a gran voce: "Se sua figlia se ne è andata, evidentemente non stava così male", come se io avessi agito da simulatrice, non provando neppure per un secondo a mettere in discussione l’atteggiamento adottato dalla sua collega. In più ha agggiunto di poter dichiarare certe cose poiché si trovava lì quando era accaduta la vicenda. Ma egli non c’era, eravamo solo io e l’infermiera, dunque ha raccontato un'insensata bugia.
Una volta tornate a casa, mia madre e mia sorella mi hanno riferito ciò che era stato detto durante la discussione. In quel momento sono giunta al culmine della sopportazione.
Abbiamo scelto di tornare in pronto soccorso per un’ultima volta. Sentivo la necessità di difendermi, di chiudere questa storia, di fare giustizia.
Giunte nella struttura mi sono recata dall’infermiera con la quale si era svolta la vicenda.
Purtroppo però il medico di cui ho già parlato, ha scelto di insinuarsi aggressivamente nella conversazione.
Mi ha detto che, appunto, il fatto che io me ne fossi andata avesse determinato la reale gravosità del mio dolore, si è rivolto a mia madre dicendole: "Lei poi cosa c’entra se il problema è di sua figlia".
Mi ha detto che avrei dovuto spiegarmi meglio quando ho elencato i miei sintomi all’infermiera, dicendomi, senza peli sulla lingua, che avrei potuto dirle che “facevo acqua dal culo”, sbraitando che senza la mia minuziosa spiegazione nessuno sarebbe stato in grado di guarirmi col pensiero.
Insomma, nessuno ha davvero compreso la situazione per la quale mi ero inalberata, nessuno si è sforzato di comprendere. Mi sono trovata faccia a faccia con un uomo che era il doppio di me, ed una schiera di infermieri alle sue spalle.
Ho scelto poi di andarmene definitivamente, promettendo a me stessa che avrei parlato di tutto ciò.
Mia madre è una malata oncologica da quasi cinque anni in cura presso le strutture ospedaliere di Milano e Verona, tuttavia, vivendo all’Isola d’Elba, usufruisce dell’appoggio dell’Ospedale di Portoferraio.
Ella evidenzia ed idolatra sempre l’efficenza di quest’ultimo e dei lavoratori che ne fanno parte.
Il reparto di oncologia (come anche il quarto piano per esempio) si rivela un luogo sicuro, competente, un nido ove i pazienti ancor prima di esser curati trovano appoggio psicologico, empatia, rassicurazione ed ASCOLTO.
Proprio per questo mi preme sottolineare il fatto che non mi riferisco a tutta quanta l’equipe dei sanitari che operano a Portoferraio, non mi permetterei mai poiché non direi la verità.
Purtroppo però anche solo un caso di questo tipo non è accettabile, poiché non sono la prima e non sarò l’ultima. Certi comportamenti vanno stigmatizzati, non deve esistere al mondo che un essere umano si rechi in un Pronto Soccorso e riceva un tale trattamento.
All’isola d’Elba disponiamo di un solo ospedale ed è un NOSTRO DIRITTO essere trattati dignitosamente, in primo luogo a livello EMOTIVO, ancor prima di qualsiasi visita o operazione.
Fortunatamente in questa struttura persistono lavoratrici e lavoratori di una professionalità unica, competenti sul piano medico e su quello umano, di vicinanza psicologica a coloro che soffrono, che hanno semplicemente bisogno di aiuto.
Ma sono anche stanca di accettare le negatività senza dire una parola, oggi spezzo il silenzio e le paure di tutti quelli che, come me, hanno avuto il terrore ed il complesso di chiedere aiuto, appesantiti dalla perenne sensazione di infastidire, di essere di troppo, di vergognarsi a domandare ausilio per timore di essere giudicati.
Mi auguro che le cose cambino con il tempo, ringrazio infinitamente tutti gli operatori sanitari che mi hanno accolta in questo Ospedale da quando son bambina, donne e uomini che ancora oggi guardano i loro pazienti negli occhi e con sincerità ricordano loro di “essere con te, in tuo aiuto”.
Grazie, siete voi che ci salvate la vita.
Questo è ciò che ho scelto di raccontare, mi auguro di collezionare nuove speranze e più dolci memorie.
Cara Beatrice
Chi mi conosce e chi mi legge sa benissimo che nutro un alto grado di stima e fiducia nel personale che opera presso la struttura sanitaria di Portoferraio. Ed avendo avuto a che fare direttamente o indirettamente per eventi seri (pure luttuosi) con il nostro ospedale, non posso che confermare le positive affermazioni tue e di tua madre, sulla umanità, competenza ed empatia di cui si gode in alcuni reparti.
Per onestà debbo anche aggiungere - senza mettere in dubbio una virgola di quanto scrivi - che, quando ho avuto a che fare anche proprio con il reparto in cui è maturata la tua vicenda, sono stato trattato (e ho visto trattare i miei cari) con efficienza non disgiunta da una buona dose di gentilezza. Ma evidentemente le persone hanno una carica di positività differenziata.
Provo anche un non celato fastidio per i "protestatari per partito preso" (schiera nella quale non mi sogno di inserirti) che in luogo di muovere critiche, anche aspre come la tua, ma civili e costruttive, usano sistematicamente, non si capisce in nome di chi, pontificare e buttare il bimbo con l'acqua sporca.
Ciò premesso faccio il mio mestiere di giornalista, passo cioè il microfono a chi realmente di competenza.
Non so se e quando qualcuno intenderà risponderti o esprimere considerazioni sul tuo caso, il mio dovere è mettere a disposizione spazio per farlo.
Chiudo con un sentito augurio di positiva evoluzione del tuo stato di salute e con un figurato ma calorosissimo abbraccio.
Sergio Rossi