Vedere l’immagine su internet delle proteste per l’arrivo del Presidente della Commissione Europea, Barroso e del premier Letta, a Lampedusa ci deve far riflettere sulla recente tragedia di Lampedusa. Vedere i politici che litigano su come trattare i migranti che arrivano sulle coste italiane. Dopo la consueta spettacolarizzazione del dolore e lo scaricabile sulle responsabilità locali, regionali, nazionali, europee e mondiali pensiamo sulla grande differenza tra il vissuto e percepito. Le bare in fila e le notizie che riempiono la rete sul numero dei morti e dei cadaveri in mare o che affollano i tg non possono non farci fare un passo indietro. Dell’argomento qualche mese fa abbiamo rappresentato i risultati della ricerca sul rapporto tra media e migrazione in un convegno nazionale all’Università di Bologna.
Da secoli gli uomini pieni d’illusioni rischiano la loro vita nella speranza di trovare al termine di viaggi pericolosi una vita migliore. Esattamente come i naufraghi del dipinto di Thèodore Géricault Le radeau de la meduse del 1819, questi emigranti, questi avventurieri moderni, schiavi dei loro sogni, attraversano il mondo senza alcuna certezza sull’avvenire. Questa umanità si stringe su un’imbarcazione di fortuna, gli occhi rivolti verso la luce dell’occidente che non ha mai brillato così tanto, rilasciando nel mare i suoi valori e la sua cultura. Così come nel 2008 Gerald Rancinan un grande fotografo francese ci ha fatto vedere nella sua opera “le Radeu des illusions”.
Quando vediamo le immagini degli sbarchi in Sicilia che scorrono giorno dopo giorno sui nostri teleschermi proviamo emozioni diverse. Sensazioni forti, comunque diverse.
Su Facebook nascono gruppi di sostegno e gruppi di contrasto per un’accoglienza sancita dai diritti dell’uomo ma non sempre compatibile con i limiti degli Stati. Globalizzazione, multiculturalità, libertà di approdare o voglia di respingere. Tutto questo ci trasmettono i media, vecchi e nuovi. Tutto questo ci deve far riflettere anche nel lavoro di analisi.
La televisione ci mostra immagini crude cosi come Youtube. Immagini e cronache tristi che sono in aperto contrasto con quelle miti e familiari di scambi multiculturali a scuola, nell’università e nelle famiglie.
Il nodo della questione resta la complessità del gestire la comunicazione, fattori esterni possono farla fallire. Il rumore non solo fisico, ambientale ma anche quello simbolico dell’incomprensione, del conflitto, dell’inganno, possono intervenire in tal senso. E nell’era della comunicazione mediata i fattori esterni agiscono in modo significativo nel processo di comprensione e interpretazione dell’altro. Il modo stesso con il quale si crea l’informazione, si costruisce la comunicazione crea un inganno, confonde l’interlocutore attraverso la manipolazione di frame, intesi come tutte quelle operazioni e strategie con cui gli individui cercano di fabbricare false cornici o sfruttare la loro ambiguità.
Per noi figli della cultura liquido-moderna vedere lo sbarco di immigrati rappresenta un frame di pochi minuti scollegato dalla nostra quotidianità dove conviviamo con la badante dei nonni che con quella nave è arrivata. Vedere tantissimi corpi come è accaduto nelle ultime ore allineati dentro le bare piccole, medie o grandi ci riempie di rabbia, ci fa indignare, e il ritmo delle notizie che ci arrivano sul tablet o sugli smartphone provocano in noi reazioni diverse che rispecchiano i nostri valori e il nostro modo di essere.
Eppure se la nostra società fosse realmente basata sul flusso d’informazioni, anche il racconto della migrazione dovrebbe farne parte perché parte integrante della costruzione sociale. In realtà sembriamo assistere ad un’evoluzione in due tempi da un lato il sud del mondo che è ancora nella prima fase dell’evoluzione sociale “in lotta per la sopravvivenza contro l’incontrollabile asprezza della natura”, e l’occidente della società in rete dove stiamo vivendo la rivoluzione del modo stesso in cui concepiamo il tempo, lo spazio, gli altri. Forse è proprio per questo che questo racconto non ci interessa, perché troppo distante dalla nostra nicchia rassicurante. Releghiamo il diverso in ghetti ma siamo noi stessi chiusi nel ghetto mentale delle convinzioni che alimentiamo attraverso una cerchia di amici che hanno la nostra visione, lo stesso utilizzo del “mi piace”, tanto caro a Zuckerberg il conosciutissimo fondatore di Facebook. E tutto questo accade anche se i morti galleggiano nel mare di Lampedusa, che pensiamo lontano…ma non lo è.
Francesco Pira