Una coperta sul selciato e un lampione: era tutto quello che ci voleva a due forzuti per darsele in sfide senza regole e a oltranza. Il resto della cornice era un angolo defilato di un porto: Genova, Livorno, Napoli. Comunque ciò che importava era che ci fosse un cerchio di gente pronta a scommettere. Tra i forzuti non mancava mai un marinaio. Una nave, di norma, dato che la si caricava e scaricava a mano, stava parecchio all’andana. Così figuri dall’occhio lungo avevano il tempo di farsi un’idea degli equipaggi, di scovarci i tipi adatti, di avvicinarli, di fargli annusare un guadagno extra e di metterli, alla fine, gli uni davanti agli altri. Ora, c’era chi si lasciava convincere una volta e poi, o per averne prese troppe o per essersi beccato una coltellata, perché la rissa era probabile, o per qualche motivo suo, non voleva più saperne; ma c’erano anche quelli su cui si poteva contare sempre: dei marcantoni che non sentivano fatica né dolore, che facevano guadagnare, mentre ruscolavano qualcosa anche per le loro tasche. Uno, in particolare non mancava mai all’appello. Si chiamava Giuseppe Cecchini. Era un toscano dell’Elba. Navigava da bimbo, perché il suo paese, Rio Marina, dov’era nato il 31 dicembre 1891, ai poveri come lui offriva solo un bastinaggio da mozzo in un sottoprua lurido, se non si preferiva un buco nelle locali miniere di ferro. Ai primi posti in classifiche non scritte, ma che facevano testo, dovunque arrivava riempiva le banchine. Era, in quel suo mondo d’ombra, una celebrità. Difficile dire se qualcuno glielo mise in testa, prospettandogli una carriera, o se lo pensò da sé, ma un giorno partì per l’America. I parenti lo seppero a cose fatte. Tuttavia non si preoccuparono. Giuseppino non era un toro senza cervello, beveva il giusto, se la sapeva cavare.
In America sparì per un po’ di tempo: si sa che bazzicava un Morando Stefani, colto possidente di Barga, andato oltre atlantico per spirito d’avventura, noto per la sua passione per il wrestling, che praticava. Il sodalizio si interruppe quando lo Stefani tornò in Italia, per diventare sindaco del suo paese natale nel 1922. Dovesse qualcosa o no all’amico, nel ’24 Giuseppino riemerse e riemerse sul quadrato. In incontri di vertice, segno che aveva passato una defilata, ma proficua gavetta. Basta scorrere i cartelloni che ci sono rimasti per rendersene conto: tra il tre gennaio e il 21 marzo appare opposto a Johnny Mayers, campione del mondo in carica dei medi, e due volte a John Kilonis, un altro big, rispettivamente all’Ashland Boulevard Auditorium e allo Star & Garter di Chicago. E qui bisogna chiarire un punto: non c’era, allora, in America, uno sport professionistico più popolare del wrestling, né più attraversato dai maneggi di un esercito di promoter, di norma riuniti in trust, incredibilmente abili nel coniugare vocazione affaristica e senso dello spettacolo. La disciplina stava scivolando nel vaudeville, nel ritual drama, nella soap opera, insomma nel circo che l’avrebbe marchiata senza rimedio negli anni a venire. Si parla di un wrestling businnes che, gestito da ruvidi syndacate, alzava cifre imponenti. Quello newyorkese, che faceva capo a Jack Curley, Billy Sandow e Tony Stecher, macinava incassi fino a 75.000 dollari. Certi promoter, delle vere piovre, arraffavano dappertutto, in un confronto continuo per il controllo delle piazze più redditizie: Curley, il più eclettico, portò sul ring memorabili eventi di boxe – il mondiale tra Dempsey e Carpentier, per esempio – tornei di tennis, campionati di nuoto e perfino serate per Caruso e Valentino. Va da sé che i nomi titolati facevano battage, per cui era necessario crearne. Per questo al vecchio World Heavyweight title si affiancarono l’American Wrestling Association e la National Wrestling Association, filiazione della National Boxing Association, nonché una pletora di associazioni locali. Paradossalmente una scampolo di genuino rimase nell’ambito della semplice combine, poiché questa continuò spesso a prevedere due incontri taroccati e una bella aperta ad ogni possibilità. Fu in tale contesto che Giuseppino, divenuto Joe Parelli, forse in omaggio a un collega più anziano, forse storpiando il soprannome del ramo materno della famiglia, Perallini, fece la sua carriera e conquistò il titolo mondiale, a Milwaukee, nel Wisconsin, il 25 marzo 1924. Se dobbiamo ascoltare Michael Kenyon, il più autorevole erede di Nat Fleisher, “The Bible” dello sport americano, si trattò di un “title switch”, di uno “scambio di titolo”: Joe tolse la cintura a Meyers, cedendola, poi, a Lou Talaber, che a sua volta la ritornò a Meyers. Forse fu proprio un giochetto, anche se le cronache riportano che Joe uscì dall’incontro con Talaber con un braccio slogato. In ogni caso, l’ex campione restò ai vertici: rimessosi in sesto, il 27 novembre incontrò a Washington Joe Turner, detentore del titolo americano, e lo batté all’ultima delle tre cadute previste “con una presa di corpo”, ribadendo la forma ritrovata verso la fine dell’anno, contro Kilonis. Un foglio dell’isola natale, delineandone il profilo, nel ’25, si diceva fiero di lui e lo additava, in sintonia con un certo spirito del tempo, a testimone esemplare della “gagliardia sana ed esuberante della razza”. Dal canto loro, le molte Little Italy degli States, gli mettevano in mano la fiaccola, mai abbastanza accesa, del riscatto e lo acclamavano. Con il successo, venne anche l’attenta ricerca di un cliché: questo volle dire un corpo tatuato, la scelta di combattere a piedi nudi, cose forse mutuate dalla sua esperienza di marinaio, nonché l’assunzione fuori dal quadrato della maschera con la quale l’americano medio identificava allora l’italiano: un picaro simpatico la sua parte, un po’ artista e un po’ brigante; pittoresco, senza scampo. Venne anche il matrimonio, celebrato su un ring, nell’evidente soddisfazione di un debito. L’attività agonistica continuò intensa, sempre seguita: non c’era nessuno che non sapesse che Joe era un vero professionista: poteva anche perdere a comando o vincere senza merito. Il pane gli premeva. E anche la salute. Ma, se lasciato fare, pochi erano in grado di competerci. Nel ’27 affrontò almeno trentuno combattimenti con una galleria di personaggi di tutto riguardo, da Jack Reynolds a Ernie Maddox a Hans Bauer a Eddie Pope a Gus Kallio, facendo base a Columbus, in Ohio. Nel ’28 e nel ’29, a Chicago e a Cincinnati, tentò la riconquista della corona mondiale contro Mayers e Reynolds. Il disastro di Wall Street non ne fermò la carriera. Il “giovedì nero” portò una laboriosa ridefinizione della mappa del potere dei promoter, ma anche una centralità dei bisogni e dei gusti della società di massa, sull’onda del realismo letterario e cinematografico da cui tanto sostegno trasse il New Deal. E’ un fatto che già nella prima metà degli anni Trenta si poté tornare ad organizzare riunioni sontuose, con grandi ritorni economici. Di esse Joe fu un protagonista: entrato nel giro dei promoter che si erano affermati a New York, Curley e Jack Pfeffer, partecipò ai più pirotecnici megacard del Madison Square Garden e dello Yankee Stadium, i templi insuperati del ring americano. Tra i suoi ammiratori ebbe, allora, personaggi famosi, come il presidente Roosvelt, wrestler nella prima giovinezza, che lo ospitò sul suo yacht, e Al Capone, con cui fu più volte commensale. Quarantenne, per mantenere una visibilità in un ambiente che non faceva sconti, accentuò il suo cliché, puntando sull’aggressività, per cui, oltre che “The Tattooed”, fu chiamato “The Wild”, “Il Selvaggio”, “Il Matto”. Nel giro gli riconoscevano doti di attore. Si faceva sempre più evidente, intanto, la metamorfosi della disciplina, anche attraverso alcune inaudite decisioni arbitrali, che nel 1933, ad esempio, condussero alla sospensione del calendario degli incontri nell’Illinois. Le impressionanti dimensioni del marcio le rivelò nel 1934 il “New York Times”, pubblicando un’intervista rilasciata da Pfeffer per ritorsione a uno sgarro. Dal canto suo, Joe si prestò a sostenere la carriera di wrestler emergenti, facendosi battere, dentro cornici sempre meno prestigiose e però, fino a tutto il 1934, nella Grande Mela, come il Brooklin’s Ridgewood Grove e la Manatthan’s famed St. Nicolas Arena. Successivamente, fu un continuo e faticoso spostarsi da uno stato all’altro alla ricerca di ingaggi. Ancora nel 1935 ne vennero di buoni, che portarono a sfide importanti al Civic Auditorium di San Francisco e al Fortuna Park di Seattle. Venne anche il tempo di un breve ritorno in Italia. Joe rivide i familiari che non era riuscito a convincere a raggiungerlo in America. Non si trattò di una vera e propria vacanza: continuò un suo personale e severo regime di allenamenti. Si esibì, all’Elba e nella Toscana continentale, con un collega di colore. In un centro del fiorentino fu contestato. Ma, a quanto pare, lo urtò in special modo un’accoglienza giudicata tiepida da parte delle autorità. Tornato oltre atlantico, sceso al quinto posto nella classifica della sua categoria naturale, quella dei medi, da cui era talora uscito per entrare nei welter e nei mediomassimi, proseguì il suo peregrinare. Nel ’37, a Ventura, in California, si prestò, con un contorno in cui spiccava un Jimmy El Pulpo, ad una sarabanda intorno alla versione di un mondiale che Kanyon definisce, nella sua espressione più benevola, “pagliaccesca”. Continuò, quindi, a salire sul ring, tra il ’38 e il ’39, a Los Angeles, San Diego, Salt Lake City, Portland, anche per tamponare le falle di una situazione economica che, già florida, era appassita. Abbandonato il ring ultracinquantenne, intorno al ’43, non lasciò, però, il mondo del wrestling, per il quale reclutò pugili malridotti, agli sgoccioli della carriera. Ciò gli meritò una delle sequenze più drammatiche della celebre pellicola Requiem for a Heavyweight di Ralph Nelson, interpretata da Anthony Quinn, di cui avrebbe costituito un implicito risarcimento una più tarda citazione nel non meno celebre Rocky, caposaldo della carriera di Sylvester Stallone. La morte, suggello di un’esistenza tanto coraggiosa quanto avventurosa e dura, specchio di tanta parte della storia della nostra emigrazione, lo colse per un cancro a Dallas, nel 1957.
Gianfranco Vanagolli