Io dico che abbiamo perso il piacere di perderci.
Si, quel piacere là, quello che ti fa imboccare una strada e nel mentre che la percorri te ne stai talmente assorta con naso all’insù a guardare palazzi e finestre, portoni e balconi, che non lo sai dove ti portano i piedi.
A condurti è il fascino delle storie, dei racconti che si celano dietro alle facciate dipinte dal tempo.
Un vaso di fiori, la coperta stesa al sole, il profumo di arrosto che esce da quella casa. Tutto ha una sua storia, tutto ha il potere di condurti per mano.
Mi chiedo perché non lo si faccia più. Mi chiedo perché ci si sposti da A a B, secondo precise traiettorie scandite, all’occorrenza, dalla fredda voce del navigatore. Perché non si dubita più e non ci si lascia camminare come viene? Perché è oro colato la scienza esatta del calcolo minuzioso della distanza da percorrere? Quand’è che abbiamo iniziato a vivere dentro a un problema di matematica, di quelli che mi dettava la Prof. Grassi “Mario deve percorrere una distanza di 370 km e la sua auto ha un’andatura media di 80 km/h. Quanto tempo impiega Mario ad arrivare a destinazione?”.
Al diavolo! E se si fermasse, Mario? Se avesse voglia di tuffarsi in un campo di papaveri in fiore perché gli gira? Se lungo la strada avesse voglia di fermarsi, perché lì a 100 metri vive la sua ex fidanzata? Dove li mettiamo gli imprevisti, eh? E la voglia di cambiare rotta, di sperimentare qualcosa di nuovo, di non affidare tutto al calcolo matematico del tragitto più breve? E se l‘essenza del viaggiare consistesse proprio nel piacere di percorrere le distanze e di abbandonarsi a ciò che viene, anziché ottimizzare sempre i tempi? Che poi ottimizziamo i tempi in vista di cosa?
Fortuna che io ho il coraggio (o meglio la faccia tosta) di metterlo in discussione, il navigatore, di sgridarlo (dico sul serio: ci parlo, anzi lo offendo se è il caso) e di girare incurante per mezz’ora attorno allo stesso isolato perché non mi accorgo che, evidentemente, chi è in errore non è il GPS.
La verità è che a me piace perdermi. Si, intimamente io sono una che si lascia camminare dentro le storie, che parte ma non sa quando e soprattutto dove arriva.
Parto da una sola certezza iniziale, l’intenzione, la volontà di andare: il resto lo fanno le strade, le storie, le persone lungo la via.
Così ho pensato che sarebbe bello che le città, i paesi, le destinazioni in genere ci lasciassero liberi di perderci, ogni tanto, attraverso un uso accurato di segnalazioni storie. Al posto dei nomi delle vie e delle piazze, vorrei trovare inizi di storie il cui finale, aperto, fosse scritto dal tragitto di ognuno di noi.
Non più linee rette capaci di coprire distanze da A a B ma più puntini uniti dalle nostre storie e dal nostro sentire.
Che poi, penso, ne ho sentito parlare pure al #travelnext: serendipity (ma non coincidenza).
Francesca Campagna da http://fravolacolcuore.com/