Due riflessioni sulla vicenda parigina. In questi giorni, per la verità, non ne sono mancate, comprese le due molto belle comparse su Elbareport (lo strepitoso Francois Cavanna). Molta commozione, molte emozioni: tutte autentiche, mi verrebbe da dire. E poi, la paura di una tragedia che domani potrebbe riguardarci da vicino. Je suis Charlie l’abbiamo letto dappertutto, per dire che molti si sono caricati il dolore di quelle donne e di quegli uomini così tragicamente uccisi e di chi era loro vicino. Molti anche i distinguo –“però esageravano, però bisogna avere rispetto dei sentimenti altrui, specialmente quelli religiosi”-, e moltissimi i richiami alla tolleranza (che brutta cosa la tolleranza, necessariamente faticosa e un po’ contro voglia! Così diversa dall’accettazione, dal riconoscimento della molteplicità, delle diversità. “Tollerabile” solo perché l’intolleranza appare subito peggiore). Molte le dichiarazioni schierate a difesa della libertà della satira; immediato il processo di beatificazione degli ultimi martiri della Libertà (bellissimo il fumetto d’apertura di “Gazebo” domenica sera, col Martire un po’ a disagio per l’aureola e le nuvolette, che si scuote e se ne va via contento con il suo amico Satana). E poi le mille polemiche: “dov’erano tutta la Francia e l’Europa della manifestazione di ieri quando gli ‘Islamisti’ trucidavano centinaia di persone in Pakistan o in Nigeria”? E di contro: “perché gli Islamici che oggi si dissociano dalla violenza non l’hanno fatto prima e hanno lasciato crescere la follia fondamentalista”? E poi ancora: la guerra di civiltà, la guerra santa, la guerra portata contro l’Europa e i suoi valori, l’Occidente e i suoi valori. E’ difficile orientarsi, ma due o tre cose si possono forse dire.
Io non credo che l’Islam c’entri molto in tutta questa vicenda. Così come il Cristianesimo, o l’Ebraismo, o la religione in genere. O meglio: credo che abbiano un ruolo essenzialmente “rappresentativo”, un po’ come le divise dei militari; servono per riconoscersi in combattimento, ma non sono le divise la causa della guerra. La storia ci soccorre.
L’Islam nasce oltre 1400 anni fa, e in breve raggiunge una larga fascia di popolazione in Asia e in Africa, e poi, gradualmente, si diffonde dappertutto. Ha le sue dinamiche interne (tante differenti interpretazioni), ma i popoli divenuti islamici –che impropriamente noi chiamiamo Arabi, e che invece sono tanti e tanto diversi- erano in contatto con i popoli europei e con quelli asiatici da tempi lontanissimi: possiamo dire che abbiamo fatto insieme affari commerciali per 1400 anni con continuità e con reciproca soddisfazione, e in relativa pace –cioè facendo le guerre come con tutti gli altri partner commerciali di tutto il mondo e di tutte le religioni. All’infuori di quella cristiana, perché con i cristiani le guerre sono state infinitamente più numerose e più cruente. Insieme allo scambio di merci, fondamentale è sempre stato lo scambio di culture; e, per parlare di noi, se conosciamo la “nostra” filosofia greca classica lo dobbiamo agli studiosi ‘arabi’ del medioevo almeno quanto a sant’Agostino (che comunque era ‘arabo’, essendo nato in Algeria). Per non parlare della matematica, dell’algebra, della fisica, della tecnologia, della filosofia, della letteratura…
Dire dei popoli di una così vasta area territoriale, di una così ampia varietà culturale, di una così varia professione religiosa, che sono gli “islamici” è una semplificazione fuorviante: come dire che gli europei sono i “cristiani”. Ognuno ha una sua storia, e di ciascuno la storia è antica e complicata, e antecedente l’insegnamento di Maometto, che ne costituisce una importante svolta, ma non la esaurisce.
L’ultima edizione dell’unità del mondo islamico –quanto volontaria o piuttosto ‘costretta’ è ben da vedere- possiamo identificarla nell’Impero Ottomano, durato fino alla conclusione della I Guerra mondiale: il mondo “arabo” ne faceva parte, ma in una modalità che difficilmente potremmo confrontare con quelle del mondo occidentale rispetto ai sovrani o ai dominanti: basta pensare che molte popolazioni erano nomadi; basta pensare alle caratteristiche morfologiche dei territori; basta pensare alla prepotente presenza dei deserti. Comunque, fino a tutto il XIX secolo, le occasioni di scontro con l’universo Islam sono state tutto sommato ben poca cosa. Il terrorismo, poi, era praticamente sconosciuto, e non solo perché la sua genesi è legata alla modernità e alle sue diavolerie.
Poi è arrivato il petrolio, e con il petrolio sono arrivati gli occidentali con le loro logiche economiche, politiche, sociali. Basta guardare l’Atlante per capire la differenza profonda tra la situazione occidentale e quella “araba”: da noi -a livello nazionale ma anche regionale, provinciale, comunale, privato- i confini seguono storie antiche e complicate, hanno linee contorte, seguono perfino le strade; nelle divisioni ereditarie delle singole famiglie si arrivava e dividere ogni campo in tante parti quanti erano i figli, perché a ciascuno toccasse un pezzetto di “quel” campo con le sue caratteristiche. I confini nei paesi “islamici” sono delle semirette con angoli come i poligoni, tracciate a tavolino con riga e squadra su una planimetria vergine. Le tribù dell’entroterra mediterraneo dell’Africa e del Medio Oriente ‘stavano’ su un territorio, e ‘possedevano’ solo i pozzi e le oasi: segnare i confini in una terra ingrata e sterile non poteva interessare a nessuno, fino a quando quei confini non hanno finito per identificare il “proprietario” di quel che c’era nel sottosuolo, cioè il petrolio: e allora ogni chilometro in più o in meno contava, e parecchio. A compiere il capolavoro sono stati gli europei prima, e gli americani dopo. Nei primi trent’anni del XX secolo, meno di cento anni fa. E insieme ai confini hanno portato –o hanno cercato di portare- la loro visione del mondo, la loro cultura politica ed economica, in un mondo diversissimo dal loro; e hanno fatto diventare “sovrani” quei signori che da tempo immemorabile erano Capi tribù. E di volta in volta, specialmente nel secondo Dopoguerra, è stato scelto (dagli Stati Uniti) uno di loro per tenere a bada tutti gli altri, con i risultati che ben conosciamo.
Col petrolio la ricchezza dei nuovi “sovrani” cresceva a dismisura (o almeno di alcuni di loro), e le loro fortune accumulate in dollari –moneta con cui si acquista il petrolio- sono divenute un potere forte di condizionamento dell’economia e della politica mondiali. E ancor più di quelle locali. Ma nel resto del mono gli ‘arabi’, gli islamici, erano i poveri, infinitamente più numerosi dei pochissimi ricchi del petrolio. A fronte delle enormi ricchezze, però, non c’è un corrispondente potere militare, anche perché sono Stati con pochi abitanti, che non dispongono di grandi eserciti. Ecco dunque il fenomeno dei “mercenari”, che sono in sostanza militari armati e finanziati da una potenza locale o straniera, ma che giustificano a sé e ai popoli di appartenenza la loro professione di soldati con una motivazione ideale, religiosa, etnica, tribale; come sempre hanno fatto tutti coloro che hanno nella guerra la ragione della loro vita –a cominciare dai Crociati, principi e pezzenti, che pareva non avessero altra ragione di vita che liberare il Santo Sepolcro-; o prima ancora i principi Achei, che a tutela dell’onore di uno di loro, Menelao, fecero una guerra di dieci anni per riprendersi la bella Elena scappata con Paride, figlio del re della città-stato di Troia, infinitamente più ricca e più potente dei loro miseri regni di pastori.
Allora il problema non è l’Islam radicale e fondamentalista dell’ISIS, ma chi finanzia l’ISIS e perché. Certo non ci sono belle regine da riprendersi. Tutto gira intorno al petrolio. La guerra del prezzo del petrolio, che vede gli ‘Arabi’ opposti agli Occidentali (e segnatamente agli USA), è lo sfondo non irrilevante della guerra di Siria, come a suo tempo è stato della guerra dell’Iraq (e dell’Afghanistan per il passaggio del gas della Russia). Molti analisti attribuiscono alla Saudi Arabia la responsabilità delle guerre degli ultimi trent’anni in Medio Oriente, e i finanziamenti all’ISIS, come del resto ad Al Qaeda (Bin Laden era un principe saudita), anche se non in chiaro. E non in chiaro si combatte la guerra del petrolio, con le tutte, come si dice in Toscana.
Il terrorismo è una manifestazione di ‘questa’ guerra, tipica di chi ha pochi uomini a disposizione e ha bisogno di risultati clamorosi. E poiché ha bisogno di consenso, lo cerca nel radicalismo religioso, facendo leva sulle interpretazioni più radicali del pensiero islamico, proprio perché ne può derivare un consenso trasversale: capace di coinvolgere dappertutto coloro che, richiamandosi alla stessa appartenenza religiosa, hanno nelle difficoltà –quando non nelle tragedie- del loro vissuto di emigranti, di emarginati, di esclusi o di “tollerati” più d’un motivo di risentimento o almeno di insoddisfazione.
E il terrorismo si fa con il terrorismo, e l’unica forza assolutamente incapace di combatterlo è il terrorismo di risposta. Questo significa che si deve essere acquiescenti? “Tolleranti”? Non credo proprio. Ma non si deve neanche pensare di curare le malattie intervenendo sui sintomi.
Nessuno, credo, deve poter pensare di risolvere i propri problemi esercitando violenza sugli altri: questo è un principio irrinunciabile. E che ognuno abbia il diritto di difendersi dalla violenza è un altro principio irrinunciabile. Ma la guerra si deve combattere là dove essa trova la sua origine nefasta.
Perché quattro principotti seduti sul petrolio devono accumulare ricchezze infinite, con i loro partner commerciali americani, mentre interi Continenti si dibattono nella miseria, nella fame, nelle malattie, nell’insicurezza, nella mancanza di tutto ciò che può riscattarne la vita e dare loro dignità?
Mi pare che l’Islam non c’entri proprio. La guerra da fare è per la giustizia. Lasciarla ai disperati del terrorismo è la vera grave colpa di tutti coloro che se ne stanno a guardare.
Luigi Totaro
P. S.
La satira deve essere libera? Certamente: ogni manifestazione culturale è preziosa per crescere. Ma qualunque espressione satirica è, in quanto tale, qualitativamente apprezzabile? Questo è altro; ma non vorrei mai che qualcun altro lo decidesse per me.