Franco Cambi riesce a scrivere sempre in modo chiaro e coinvolgente. Chiaro, perché si capisce che che sta parlando proprio di quello che dice, e non di sé e della sua intelligenza e della sua gloria presente o futura; coinvolgente, perché a seguire il suo ragionare ci si trova finalmente davanti a prospettive ampie e a problematiche generali, alle quali si è come invitati a entrare.
L’Elba che noi conosciamo, della modernità e della relativa prosperità, nasce da appena mezzo secolo. Prima di allora era una terra di agricoltura e di agricoltori, con pochissimi benestanti e tanti lavoratori, come dappertutto in Italia; ma in un’isola, con tutto quello che la separatezza comporta.
Quando altri benestanti di ‘forivìa’ nel loro girovagare incontrarono la bellezza davvero straordinaria di questa terra, il suo destino cambiò, in tempi brevissimi; e cambiarono gli elbani, che scoprirono che l’habitat nel quale erano immersi da sempre, e al quale si sentivano attaccati per istinto, aveva una qualità capace di affascinare altri e tanti che non avevano legami di nascita o di famiglia, per un incanto essenzialmente estetico. E scoprirono che quel loro habitat poteva diventare una risorsa anche economica e sociale, emancipandoli dalla fatica della terra, del sasso o del ferro, nella quale avevano vissuto innumerevoli generazioni.
Così, in breve l’Elba è diventata quel che è oggi, cambiando ma non troppo, e restando pur sempre a un livello di qualità comparativamente notevole.
La società elbana è cambiata in tanti aspetti, soprattutto economici, e forse si è abbandonata all’illusione che la nuova prosperità potesse continuare a crescere per sempre, come le vigne o gli alberi, quasi da sé. La qualità del territorio c’era, le infrastrutture s’erano fatte, i servizi in qualche modo si facevano funzionare: non c’era che da aspettare ogni anno il rinnovarsi del miracolo della piena del Nilo, sotto forma di pacifica invasione di forestieri in cerca di aria buona e di tramonti. Per qualche decennio le cose sono andate più o meno così. Prima, con le famiglie che venivano per tutta l’estate, e tanti bimbi che crescevano con i ragazzi di qui. Poi, gradualmente, hanno cominciato a venire altri turisti, che si trattenevano un po’ meno e si integravano un po’ meno, ma integravano la “rendita”, suggerendo l’idea che più gente veniva e meglio era.
E così sono cresciute case e pensioni, stabilimenti balneari, ristoranti, negozi. E hanno smesso di venire le famiglie dei tre mesi, perché intanto cambiava la società nel suo insieme, la sua cultura, le sue abitudini: altre mete turistiche si aprivano, si moltiplicavano le “barche” e quindi il turismo mobile, si accorciavano i periodi di tempo libero, le donne si affacciavano al mondo del lavoro e avevano meno tempo per le vacanze, e via dicendo. All’Elba veniva sempre più gente, sempre meno esigente, per periodi sempre più brevi, più incline a considerare i posti letto delle strutture di accoglienza che non gli agi e l’estetica. E l’offerta seguiva la domanda. Infine è apparso lo spettro della crisi. Ed eccoci a domandarci cosa si può e si deve fare per venirne fuori.
La rapida sintesi storica che ho cercato di delineare propone un’evidenza sulla quale conviene soffermarsi: l’economia elbana è passata dalla rendita agraria all’attività turistica, senza considerare che quest’ultima non può essere gestita come una rendita. Perché la rendita agraria, certo meno vantaggiosa, aveva tendenzialmente un mercato potenziale costante; l’attività turistica dipende sempre dal mercato esterno, e non solo da quello turistico. E’ esposta alle variazioni microeconomiche contingenti delle mode, dei gusti, della concorrenza; e ai grandi processi macroeconomici di rilevanza mondiale.
E se anche la terra ha comunque bisogno, per rendere, di migliorie, di investimenti, di ammodernamenti; il turismo ha assoluto bisogno di essere gestito come un’impresa, e non c’è nulla di più lontano dal concetto di impresa che l’idea di rendita. E in quanto impresa, bisogna considerare il turismo un’attività complessa e difficile, perché in territori circoscritti come le piccole isole non può limitarsi a “inseguire” la domanda, ma deve riuscire a crearla e orientarla in modo da far fronte alla concorrenza.
Eccoci dunque al “ragionamento” di Franco Cambi, e alle sue puntuali indicazioni. Ognuna rimanda a un investimento da fare per valorizzare al massimo le risorse che abbiamo –tante, per fortuna- e condurle a diventare un’“offerta” mirata e possibilmente di lungo periodo. Sottolineo volentieri il richiamo a Riccardo Francovich, caro amico da sempre e vero manager della cultura di altissimo livello: “si ragiona sui progetti”. Il “progetto” è l’opposto della “rendita”.
Luigi Totaro
Università di Firenze