L’esercizio del potere, ha osservato i questi giorni il Presidente della Repubblica, può “inebriare”; e l’ebbrezza del potere è pericolosa. Perché in democrazia il potere deve essere servizio, ma “inebriato” si trasforma in dominio, e mette in pericolo l’indipendenza dei cittadini, che non è soltanto libertà personale: è anche indipendenza dagli schemi mentali, dai pregiudizi; indipendenza dal potere e dai suoi abusi, cioè dalla violenza esercitata sulle persone. La tutela della nostra indipendenza è affidata alla magistratura, che va aiutata, confortata, protetta, corretta, perché continui a esserne garante attraverso la ricerca rigorosa della verità. La giustizia allora è ricerca della verità, e la verità è l’espressione autentica della giustizia.
In questi giorni la magistratura ha potuto finalmente dare una risposta all’angosciosa vicenda di un giovane che nove anni fa ha perduto la vita in una caserma dei Carabinieri di Roma: la magistratura, in questo caso appunto poderosamente aiutata dalla famiglia e da una parte dell’opinione pubblica. I fatti sono noti, ma il loro svolgimento è rimasto celato troppo a lungo, come i nomi e le responsabilità di chi vi ha variamente partecipato. Il 22 ottobre del 2009 Stefano Cucchi moriva mentre si trovava in stato d’arresto, dunque –come ha ricordato Carlo Lucarelli- nelle mani dello Stato; e quando un cittadino è nelle mani dello Stato, lo Stato ha la responsabilità di tutto quello che gli succede. Anche se la morte fosse stata un incidente, Cucchi era nella custodia dello Stato. E questo non significa solo che non doveva scappare, ma che non gli doveva succedere nulla di male; diversamente vuol dire che qualcosa non ha funzionato, e bisognava poter intervenire perché le cose dovevano cambiare, da subito. Ma quanto è accaduto è cosa gravissima: in questo caso l’ebbrezza del potere di due militari in una caserma –un potere soggettivamente piccolo ma oggettivamente enorme- ha distorto la funzione di servizio per trasformarla in violenza spietata, fino a produrre la morte di un ragazzo. E ha coinvolto una grande istituzione dello Stato che, anch’essa inebriata dal proprio potere, ha alzato un muro contro la verità dei fatti. Depistaggi, fogli spariti, prove nascoste, false accuse -rivolte anche ad altri corpi dello Stato-, ecc.: non si tratta solo di alcune persone venute meno al loro dovere, gli autori materiali del delitto; ma un apparato che si è sentito minacciato dai comportamenti delle cosiddette “mele marce”, e che ha ritenuto necessario o opportuno nasconderli.
La verità, occultata per nove anni, alla fine si è fatta strada, e smentisce ora tutti coloro che hanno cercato di vanificarla. Certo a molti era chiara da subito; ma ci sono voluti nove anni perché potesse essere proclamata, vincendo grida e intimidazioni. Per questo arrivare ora a questa verità è una conquista, perché significa che le cose possono cambiare. Infatti quanto accaduto nell’ottobre 2009 non è stata una vicenda privata della famiglia Cucchi. Riguarda tutti, come forse tutto quello che accade a ognuno di noi in fondo riguarda tutti. Perché a volte quelle che sembrano storie private -e che come tali attraggono la nostra attenzione particolare- ci rendono disattenti ai contesti nei quali si svolgono, e non ci accorgiamo che la storia ci passa sopra la testa, e va avanti fino a un punto di non ritorno. Così anche la verità è per tutti, ed è ritrovare la speranza.
La verità è una parola complicata. Paradossalmente quella ricercata dalla magistratura e dichiarata ai cittadini è più semplice: esistono delle norme stabilite consensualmente (almeno in regime di democrazia), e la loro violazione configura un reato; si tratta di ricostruire puntualmente il corso degli eventi e di accertare che chi li narra (i testimoni) non sia contraddittorio. Nell’ambito politico, invece, tutto finisce per essere più nebuloso. Anche se non vi è questione di reati, resta il problema di capire se e quanto le cose affermate, promesse, previste, desiderate, corrispondano alla “verità effettuale della cosa”, come diceva Machiavelli. E infatti i nuovi filosofi –si fa per dire- della politica hanno inventato la “post verità”, che va ad affiancarsi alla “post storia” (sostituita dalla “narrazione”), incamminandoci verso la “post democrazia”.
E’ ben evidente che le forme della democrazia liberale sono state superate, e che i riti delle Istituzioni rappresentative sono ridotti a meri cerimoniali: non solo le “primarie”, di cui si conoscono i vincitori al momento dell’annuncio delle candidature; ma anche i metodi di aggregazione del consenso, affidati a una comunicazione politica fatta di brevissimi slogan e di parole d’ordine, nei quali conta assai più –o soltanto- l’impatto emotivo che il contenuto corrispondente. La fine delle ideologie –anche se a me sembra che l’ideologia neocapitalista e neo liberista esibisca ottima salute- ha visto emergere, o riemergere, le figure carismatiche, le individualità dei leader ai quali si tributa un affidamento pieno e acritico, qualunque cosa dicano o facciano. E senza imposizioni autoritarie: non ce ne è bisogno; e senza che vi siano, in genere, necessità personali, come avveniva nel caso dell’“asservimento” medievale, se si prescinde dalla povertà diffusa e dalla disperazione di molti.
Il potere dei leader diviene assoluto, senza che lo abbiano imposto o richiesto; diciamo che viene riconosciuto e basta. Mi viene in mente la parabola di Matteo Renzi, o l’attuale trionfo di Salvini e Di Majo: l’identica ebbrezza del potere che ne caratterizza atti e decisioni, e la conseguente modesta considerazione della capacità critica dei seguaci –Renzi l’ha uccisa del tutto quella capacità critica nei suoi; e a distanza di un anno dalla sua eclissi ancora sembra che non abbiano altro dio all’infuori di lui, a costo di precipitare verso un suicidio di massa-.
Promesse mirabolanti, non sostenute da numeri che le confortino, ma solamente dal prestigio dei leader e, nel caso presente, dal riferimento al testo sacro del “Contratto”, Nuovissimo Testamento (“testamentum” è la parola che traduce in latino il termine “patto”) fonte di ogni giustizia e verità, continuamente richiamato alla dimensione laica di Volontà del Popolo, ancorché oscura nei modi di manifestazione e di definizione se non in quanto investitura elettorale dei leader in virtù delle loro promesse: un gatto che si morde la coda, ma se si dice velocemente non se ne accorge nessuno –e giù la cascata di tweet e di conferenze-stampa senza contraddittorio su FaceBook- senza neanche il compiacimento dell’ironia toscana di Renzi o della retorica ciceroniana di De Luca (parliamone come da vivi).
Eppure la verità –la verità effettuale della cosa- c’è, e aspetta. Senza preconcetti né pregiudizi. Verrà fuori al suo momento, e dirà chi aveva visto giusto e fatto giusto, assegnando ragioni e torti; e dirà chi ha governato in sobrietà e chi in preda all’ebbrezza.
Ma, come scriveva Guccini e cantavano i Rom (Nomadi) “noi non ci saremo”; e un po’ ci dispiace.
Luigi Totaro