Il dibattito che per l’ennesima volta si sta aprendo sul destino dell’Isola di Pianosa mi induce a un ennesimo intervento, nel tentativo di produrre riflessioni e proposte più attente.
La Pianosa ha cessato di essere un carcere dal 1996. Una legge del Parlamento ne decise la chiusura in un momento particolare della vita nazionale, anche in considerazione dei costi di mantenimento della struttura penitenziaria, che il Ministero di Grazia e Giustizia riteneva eccessivamente onerosi. Già allora la decisione fu controversa perché –a parte gli slanci ideologici che propugnavano la “liberazione” dell’Isola- i pro e i contro non apparivano bilanciati. Alcune associazioni ambientaliste vagheggiavano la riappropriazione di quello che era ritenuto un paradiso naturalistico, altre rivendicavano un improbabile diritto di cittadinanza speciale per sé e i propri discendenti, altri –in contrario e più realisticamente- puntavano a vanificare la fascia marina protetta intorno all’isola per pescare senza troppi controlli.
Di contro, la chiusura dell’Istituto penitenziario di Pianosa significava la perdita di un’importante risorsa economica per il Comune di Campo, dove risiedeva buona parte del personale di custodia con le famiglie, e che comunque costituiva il mercato di riferimento se non per la struttura –che si approvvigionava diversamente- almeno per l’indotto. C’era poi il disagio del personale di custodia, che doveva trasferirsi ad altro Istituto (foss’anche Porto Azzurro). E infine c’era il problema non certo indifferente della conservazione delle infrastrutture dell’Isola e della salvaguardia del mare.
Furono formulati vari progetti –del Comune di Campo, del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, della Provincia di Livorno e della Regione Toscana, che avevano a diverso titolo responsabilità istituzionali su quel territorio-, ma tutti trovarono un ostacolo nei costi imponenti che una qualsiasi utilizzazione della Pianosa comportava. Nella sostanza si decise di non decidere: e così il Ministero di Grazia e Giustizia rinunciò alla concessione demaniale dell’Isola, ma non la riconsegnò al Demanio, mantenendovi un piccolo presidio; il Comune organizzò con il Parco delle visite guidate; qualche infrastruttura venne restaurata e data più o meno formalmente in affidamento a associazioni senza finalità di lucro; ma in sostanza nessuno prese in carico la situazione nel suo complesso, perché nessuno aveva risorse bastanti per una utilizzazione intelligente e non economicamente suicida, ammesso che ne esistano.
Perché Pianosa è un costo insostenibile per chiunque non ne faccia un uso istituzionale, cioè lo Stato, come è avvenuto in modi diversi almeno dall’Unità d’Italia (ma anche da un po’ prima). Era più o meno così anche ai tempi di Augusto imperatore, che vi relegò il nipote Agrippa; lo è stato dopo con l’Istituto penitenziario. Quasi tutto ciò che c’è di costruito è stato edificato dalla struttura carceraria –nessun edificio dell’epoca precedente il XIX secolo è rimasto-, utilizzando prevalentemente personale recluso a baso costo e bassa professionalità: a parte tre o quattro edifici tutto ciò che ora appare cadente fino a vent’anni fa appariva riverniciato, ma era cadente lo stesso. Le case hanno solo in parte fondamenta decenti, e il materiale di costruzione –la sabbia in primis- è locale, cioè intriso di sale e portatore di un’umidità allucinante. Fanno eccezione appunto le infrastrutture penitenziarie –diramazioni carcerarie e caserme- costruite con criteri moderni e di sicura efficienza, che sono ancora in buonissimo stato. Il resto potrebbe cadere senza gravi danni; e per riutilizzarlo si dovrebbe in ogni caso demolirlo e ricostruirlo.
L’azienda agricola del penitenziario è un altro mito: in realtà a Pianosa c’era un’azienda obsoleta anche se molto pittoresca, e la sua redditività consisteva sostanzialmente nel tenere occupati i reclusi: per intendersi, non era Gorgona né l’Asinara. Certo, se si piantavano zucchine poi crescevano; ma questo non ha nulla a che vedere con un’azienda agricola redditiva.
Il mito del paradiso naturalistico è un’altra favola bella. Alla Pianosa da duemila anni e per duemila anni non c’è stato un filo d’erba che non sia stato piantato dall’uomo, non c’è animale che non ci sia stato portato. Solo il mare è davvero una straordinaria risorsa naturalistica, grazie alla fascia di un miglio interdetta alla navigazione non autorizzata a partire dal 1991. Ma anche in questo caso si dovrebbe dire che solo fino a che c’è stato l’Istituto penitenziario la vigilanza delle motovedette della Polizia Penitenziaria –presenti lì per la sicurezza del Carcere- era in grado di garantire il rispetto della fascia di mare protetta ventiquattro ore su ventiquattro. Quando quelle motovedette sono diventate più sporadiche e poi se ne sono andate, le altre forze di vigilanza hanno dovuto faticare un bel po’ per mantenere una sorveglianza almeno plausibile, almeno finché ce l’hanno fatta.
Il fascino principale della Pianosa consiste prevalentemente nel fatto che non ci si può andare con mezzi propri: perché, se tutto fosse andare a fare il bagno nella splendida Cala Giovanna insieme ad altre trecento persone, converrebbe dirottare sulla Biodola o su Marina di Campo, che sono altrettanto belle, più grandi, e con dietro un fornaio o una pizzeria (e soprattutto una guardia medica).
Eccoci allora al ventilato progetto di riaprire un Istituto penitenziario alla Pianosa. Temo che sia davvero l’unica condizione per rivederla rinascere com’era prima. Con una sua popolazione stabile (perché costretta a starci, reclusi e custodi, e tutta la scomodità che ciò comporta), e con essa le infrastrutture di servizio indispensabili e costosissime che il Ministero della Giustizia potrebbe compensare con il risparmio della costruzione di nuovi stabilimenti. La destinazione di reclusi a fine pena o a basso tasso di pericolosità potrebbe persino far immaginare iniziative di integrazione sociale interessanti, inventando un turismo intelligente e consapevole che potrebbe partecipare alla riprogettazione del territorio con il concorso degli Enti Locali e delle Associazioni collegate. Del resto la realtà degli Istituti di pena non è un corpo estraneo da rimuovere e isolare, ma piuttosto una parte sofferente del corpo sociale che può sperare nell’attenuazione degli aspetti più dolorosi e degradanti solo con l’integrazione nel tessuto sano della società.
Fino a che la Pianosa ha avuto un padrone –la Repubblica Pisana, gli Appiani, i Boncompagni Ludovisi, gli Asburgo Lorena, il Ministero di Grazia e Giustizia- almeno è stata un’incantevole quinta teatrale, un suggestivo, romantico, decadente paesaggio di delicata bellezza per chi ci andava e poi poteva ripartirsene abbastanza presto e comunque quando voleva. Pisani, Appiani, Boncompagni e Asburgo non ci sono più, e non li rimpiangiamo. Riconsegnamola al Ministero e alla Stato, per mantenerla e per proteggere il mare, che è davvero il suo grande valore. In cambio offriamo la disponibilità a non lasciarli soli.
Luigi Totaro