La guerra di Putin striscia, avanza sulla neve, sui cingolati dei carrarmati velocissimi, anfibi, corrazzati, colpisce con missili “intelligenti” come quelli americani che fecero strage di civili in Iraq, con droni di precisione che hanno seminato morte – vittime collaterali – nei funerali e nei matrimoni, nelle scuole in Afghanistan e Yemen. Profughi, pianti… Gli stessi pianti e gli stessi profughi delle guerre dolorose e infinite dell’Africa, militari che ubbidiscono a ordini e li danno, che rovesciano un ordine per costruirne uno nuovo basato su un disordine ancora più grande, scarponi sulla sabbia e sulla neve che preparano colpi di stato per abbattere dittatori e autocrati, organizzati da dittatori e autocrati o, nel caso delle democrazie, insieme a loro, scegliendo del mazzo chi è in quel momento il dittatore o l’uomo forte che ci piace.
Ma a piangere questa volta sono occhi azzurri, e le lacrime trasparenti che scorrono dagli occhi dell’umanità di tutto il mondo bagnano bianchissima pelle europea, i singhiozzi sono quelli delle nostre badanti ucraine, i bambini disperati nei rifugi sotterranei sono i loro bambini, i vecchi terrorizzati sono i loro vecchi lasciati nelle campagne o nei casermoni sovietici di Kiev a ripensare a un passato dove si annida la pallottola di Kalashnikov del presente, agli imperi ridotti in polvere, a un socialismo fallito, a un nazionalismo che ha diviso una nazione su base etnica, al sovranismo avvelenato che Putin ha finanziato e coccolato in Europa ma che non tollera al labile confine dell’Ucraina disegnato da Lenin e che poi la seconda guerra mondiale ha spostato verso ovest, in territori cattolici e polacchi, sulle montagne oltre i campi di grano e le trebbiatrici staliniane e dell’ucraino Krushov che, in una notte alcoolica, regalò la Crimea all’Ucraina segnandone il destino e dando il via a una farsa trasformatasi in tragedia.
Se Putin spara missili ad ovest per colpire i gangli vitali dell’esercito ucraino, sembra per ora voler restare con gli stivali nell’Ucraina “russa”, al di là del Dniepr, in quella che nel suo discorso anti-leninista che dava il via alla guerra ha definito uno Stato storicamente inesistente, e ormai i carrarmati russi sono a Kiev l’antica capitale di una Russia medioevale che nei discorsi di un nazionalista come Putin sembra appartenere a un passato recente, in un filo d’oro e insanguinato che porta all’Impero dello Zar, alla parentesi comunista e alla costruzione di un nuovo impero.
Quello in atto in Ucraina sembra un attacco neocoloniale e Putin ha buon gioco a rinfacciare agli occidentali che sta facendo quel che loro hanno fatto (e continuano a fare) in altri Paesi. Ma un errore non giustifica un errore, un torto non ripara un torto, sangue non giustifica sangue. Anzi, la consapevolezza dell’errore, del torto, del sangue versato da altri dovrebbe impedire di ripeterli. Ma gli errori, i torti e il sangue valgono solo per gli altri, i nostri sono sempre giustificati dalla storia, dalla contingenza, dal nemico, dagli amici…
Per questo i veri eroi di questa nuova guerra sono quelli che questa guerra non la vogliono, chi in Russia e in Ucraina chiede la pace, chi scende nel freddo di piazze ostili a gridare che la guerra è un cumulo di merda e lacrime, di terrore e ingiustizia. Chi per questo viene arrestato, picchiato, offeso. Perché e lì l’umanità ribelle, la resistenza la fratellanza, chi non si piega a un destino segnato da altri, chi vuole vivere in pace.
Ma dietro questa spaventosa desolazione, dietro questo muro che di nuovo si erige con sanzioni che finiranno per colpire i poveri e i profughi che vivranno al di là e al di qua di questa nuova cortina di ferro, c’è una guerra per le risorse, una vecchia guerra fossile di un mondo avvelenato, con la febbre alta da combustibili fossili e che non è riuscito a sostituire il veleno con la medicina, disponibile e sempre meno costosa delle energie rinnovabili, con un uso oculato delle risorse e del cibo, con la giustizia climatica.
E l’avanzata dei carrarmati russi da nord, sud ed est sembra la mappa della nostra schiavitù: conquistata a nord la centrale nucleare devastata di Chernobyl – esplosa nel 1986, quando l’Ucraina era ancora una Repubblica Socialista Sovietica – che ancora avvelena l’area di confine tra Bielorussia, Ucraina e Russia, a sud i russi venuti dalla Crimea hanno praticamente circondato la vecchissima centrale nucleare di Zaporijjia, la più grande d’Europa, vitale per mantenere accese le luci nei rifugi degli ucraini, per tenere in piedi un Paese già sbranato da oligarchi famelici, nazionalisti feroci che esibiscono svastiche, presidenti corrotti e incapaci, repubbliche ribelli nate su base etnica e che non sarebbero durate un giorno senza l’aiuto di Mosca.
E la guerra non a caso è stata incubata ed è nata lì: nel Donbass, nel cuore nero di carbone dell’Ucraina e dell’Urss, da dove partivano le squadre di minatori per rimettere a posto le cose a Kiev quando i presidenti filorussi erano a rischio per le proteste di piazza. E’ in quelle miniere di carbone, in quell’Ucraina che sogna anche nei simboli l’eroismo del lavoro sovietico, in quella che fu un’élite operaia ora dimenticata e in miseria, che è nata la ribellione contro la rivolta di Piazza Maidan che defenestrò l’ultimo presidente cleptomane filorusso e che i filo-russi considerarono – non del tutto a torto – egemonizzata da forze dell’estrema destra nazionalista e anti-russa ucraina e nazi-fasciste.
E’ di nuovo il morto che afferra il vivo, il passato che resta presente e impedisce il futuro, che impedisce il perdono – che non è dimenticanza – è il rancore che avvelena una convivenza che era diventata fratellanza, amori, famiglie, ricordi, comunione di intenti e di paure.
Simboli, aquile bipenni, falci e martello, stelle rosse, tridenti, ritratti del fascista Bandera… che si affastellano nel fango gelato di una guerra tecnologica ed energetica, soffocano un Paese nel pianto, nella disperazione.
E’ qualcosa di già visto nelle guerre sporche dei Balcani, nei bombardamenti di fabbriche e civili, nella frantumazione della Jugoslavia per linee etniche, nelle false colonne di profughi, nella propaganda che diventa realtà di tutte le guerre, nella battaglia medievale della Piana dei Merli, combattuta in Kosovo il 15 giugno 1389, che sembrava un torto da riparare più di 600 anni dopo.
E invece la guerra cancella torti e ragioni, espone nuda l’umanità di fronte al suo presente. Chi fa la guerra, chi ha la pretesa di riscrivere la storia, ha torto perché è sempre un atto contro gli innocenti, i deboli, l’umanità stessa, la verità. Putin ha torto, come lo aveva Bush.
Ma nella nuova e vecchissima guerra Ucraina, come ha ammesso ieri il presidente Usa Joe Biden, c’è qualcosa di spaventosamente indicibile, un confine invalicabile eppure reale: la possibilità – e torniamo all’energia avvelenata – di un olocausto nucleare, di un errore o di un azzardo che potrebbe essere fatale al mondo intero.
C’è un’Europa che a oriente e a Occidente è irta di missili, c’è l’esibizione muscolare di tizi come Boris Johnson che scimmiotta Putin nel suo machismo nucleare. C’è la mela stregata più velenosa: nata per dare un’energia così pericolosa che si è trasformata nella più grande arma di distruzione totale, la clava incandescente di un’umanità che ha scelto la guerra per (non)risolvere i problemi mentre avvelena il pianeta con petrolio, gas, carbone, scorie nucleari.
La nuova guerra tra i campi di grano dormienti e sopra i giacimenti di shale gas dell’Ucraina, pericolosamente vicina a vetuste centrali nucleari, conferma che anche da noi nella ricca e “pacifica” Europa c’è la necessità vitale di cambiare, di trasformarsi, di scegliere la via della pace, di ascoltare chi la pace la chiede nelle strade disperate di Minsk, in quelle coraggiose di Mosca, Sanpietroburgo e Vladivostok, chi vuole giustizia, fratellanza e un nuovo modello di progresso per l’Europa e il mondo. Di chi si prende cura del pianto dei bimbi e dei vecchi.
Umberto Mazzantini