“Vedo che si chiede a noi, della minoranza: “dove andate?” Io chiedo a voi, compagni della maggioranza: “dove andate, esattamente?”, dichiarò Fabio Mussi nel corso del suo intervento al Congresso nazionale dei Democratici di Sinistra che il 20 aprile del 2007 decise a Firenze di costituire il Pd mediante la fusione con gli ex democristiani della Margherita. E aggiunse: “L’ultima volta che ho votato una mozione di maggioranza, al congresso di Torino, si titolava: “Una grande sinistra in un grande Ulivo”. Sarà certamente un limite mio, ma io sono rimasto lì. Io non riesco a rassegnarmi all’idea che il destino della sinistra italiana possa ridursi a questo: una rete di correnti superpersonalizzate dentro un partito che ammaina i simboli stessi della sinistra e del socialismo, e poi una galassia di partiti più piccoli, verdi, socialisti, comunisti, di sinistra cosiddetta”radicale”. E concluse: “Ci sarà una parte grande della società italiana che guarda a sinistra e che non si sentirà rappresentata”.
Parole profetiche, che sembrano essere pronunciate ieri. Perché è da lì, da quella fusione, fallita sul nascere, che ha origine la profonda crisi in cui da tempo, direi da sempre, si dibatte il Pd. E’ il Pd stesso, nato senza un’identità precisa, causa del proprio male, da cui può guarire soltanto rimettendo in discussione le ragioni di una scelta affrettata e fondamentalmente sbagliata compiuta quindici anni fa.
Era evidente, fin da allora, che venendo meno ad una autonoma forza di sinistra di ispirazione socialista, l’asse del centrosinistra, e dunque della politica italiana, si sarebbe inesorabilmente più spostato al centro e finanche a destra. La sciagurata e disastrosa esperienza renziana ne è stata la prova più eloquente, ma non certo la sola nel susseguirsi periodico e affannoso di un ricambio di segretari, bruciati uno dopo l’altro sull’altare della fratricida lotta correntizia e col solo obiettivo di garantirsi posizioni di governo.
Così i grandi temi del lavoro, del sapere, dell’ambiente e anche della questione morale e della riforma della politica, già in ombra nell’atto costitutivo, sono praticamente rimasti nel limbo delle buone intenzioni ed annacquati nelle contraddizioni interne di un partito senza né capo né coda. Il Pd si è per questo sempre più allontanato dai problemi veri della gente, incapace di essere percepito dal suo elettorato tradizionale, quello costituito dalla classe operaia – che c’è, eccome se c’è! - e dai ceti intermedi, oltre che dalle fasce più deboli che più di altre soffrono a causa di un sistema basato sulle diseguaglianze.
Resta, è vero, il secondo partito nazionale, ondeggiando, di volta in volta, sopra e sotto la soglia del venti per cento, ma è anche vero che in voti assoluti è ben lontano da quello che era il Pci e che in larga parte i consensi provengono da un voto che può essere definito “abituale”, spinto e offerto, cioè, quasi per forza d’inerzia, e anche da quello che è stato sempre sollecitato come “voto utile”, speculando sullo spauracchio rappresentato dalla destra a fronte della scarsa credibilità che su questo piano sono individuati i piccoli partiti presenti alla sua sinistra.
Oggi, ormai, il re è nudo, e non è più possibile far finta di nulla e pensare, come qualcuno pare farlo, di uscire dall’attuale crisi riproponendo la velleitaria visione veltroniana del partito a vocazione maggioritaria. Quel partito non è mai esistito e non ci sono le condizioni perché possa esserlo in futuro. Credo che l’unico modo su cui il Pd debba operare, sia quello di sciogliersi e puntare ad una nuova rifondazione, con l’intento di dar vita ad una “forza di sinistra di ispirazione socialista, laica e del lavoro, dei diritti, delle libertà femminili, dell’ambientalismo, aperta a nuove culture e alle sfide di questo secolo”, così come, ritornando al 2007, fu rivendicato da quella minoranza che si rifiutò di aderire al progetto, senz’anima e senza idee, di una fusione a freddo tra forze fra loro inconciliabili e che fin dall’inizio apparve fallimentare nel tagliare le radici di quella che è stata la grande e drammatica storia della sinistra italiana del Novecento.
Alla domanda di Mussi, “dove andate, esattamente?”, non vi fu risposta allora ed ancora non c’è, perché in questi quindici anni sono rimaste irrisolte le originarie contraddizioni che hanno impedito al Pd di avere una propria riconoscibile, chiara e definita identità. E, come scrive Franz Kafka, “le domande che non si rispondono da sé nel nascere non avranno mai risposta”.
Anche la scelta delle alleanze, in questa fase della politica nazionale, può essere dirimente a tal fine, perché Calenda e Renzi non sono la stessa cosa di Conte e dell’Alleanza Verdi e Sinistra Italiana. Così come un’opposizione alla destra, oggi al governo, che faccia scelte nette in materia di lavoro e giustizia fiscale, a difesa delle categorie più a rischio di povertà e a favore di una effettiva transizione ecologica – che non prevede, tanto per intenderci, nuovi rigassificatori e il ritorno al nucleare - , può già dare alcuni segnali sull’identità di quello che potrebbe essere un nuovo grande partito di tutta la sinistra italiana.
Danilo Alessi