E’ trascorso un anno dall’inizio della terribile guerra russo-ucraina. Ne scrivevo su questo giornale quaranta giorni dopo il suo inizio, per manifestare l’orrore che essa già suscitava e che prometteva. Partivo da una polemica recensione di Aldo Grasso sul “Corriere” -«Michele Santoro si scopre filosofo: è irrilevante che un dittatore abbia invaso un Paese democratico, il mostro da sconfiggere risiede nell’iperuranio, è l’idea astratta di “guerrità”»- e commentavo: «Non nutro una particolare simpatia per Santoro e per il suo modo di fare giornalismo. Ma concordo del tutto con la sua affermazione che “il nemico più mostruoso che sta di fronte a noi è la guerra. La guerra è mostruosa”. La pace si fa solo con la pace».
Dopo un anno di guerra le cose sono -com’era facilmente prevedibile- al punto iniziale, a parte quei 200.000 morti, soldati e civili che non ci sono più; a parte quelle decine di migliaia di case e fabbriche e scuole, quelle strade e città e villaggi distrutti; quei progetti di vita di giovani e vecchi andati in fumo per sempre. L’invasore -Putin- non è stato punito né fatto arretrare; le relazioni fra due popoli vicini sono devastate; le rispettive risorse economiche dilapidate. «Questa guerra -osservavo allora- al di là di quel che appare e di quel che tragicamente accade, non è propriamente fra Russia e Ucraina: è un conflitto “per interposta persona” fra Stati Uniti e Unione Europea, che ha il fine di impedire che l’Unione Europea si emancipi dalla soggezione ormai quasi secolare dagli Stati Uniti, magari per cercare partner alternativi che permettano di sperare in una condizione paritaria nella gestione della politica e dell’economia mondiale. E gli Stati Uniti l’hanno già vinta»: la “locomotiva d’Europa”, la Germania, è nell’angolo privata di risorse energetiche; e ha dovuto abbandonare i suoi programmi green tornando alle fonti fossili -che però danneggiano tutti-. La Francia recita il ruolo di grande potenza mondiale, che non ha più; le Repubbliche ex sovietiche, liberate dal loro giogo quasi secolare, si sono poste sotto quello americano -si veda l’ultimo viaggio di Biden-, e in attesa di migliori occasioni sopravvivono solo perché concorrenziali sul costo della manodopera (a spese dei più deboli, dunque). Gli altri, Italia compresa, sono fantasmi ossequiosi. Concludevo dicendo: «Lasciamo Russia e Ucraina a cercare una pace sicura e a gestire i loro complicati rapporti, senza che si sentano spalleggiati o avversati dall’esterno. Smettiamo di giocare a fare i democratici liberali antidittatori antioligarchi a casa d’altri, quando forse ce n’è bisogno anche in casa nostra, nella nostra Europa. Smettiamo soprattutto di giocare a fare la guerra col c..o degli altri». Le rivelazioni -qualche giorno fa- di Seymour Hersch (premio Pulitzer per il giornalismo) a “Jacobin” sull’attentato ai gasdotti russi, che sarebbe stato programmato da Washington ben prima dell’inizio della guerra di febbraio, potrebbero esserne una preoccupante conferma.
Sento, come un anno fa, l’urgenza di interrompere prima possibile i massacri, le sofferenze indicibili, le atrocità, le violenze, la paura di bambini e adulti, lo sconforto che adombriamo dietro la parola “guerra”. I morti per le strade di Bucha non tornano a vita se individuiamo gli autori dei massacri: io vorrei che non se ne facessero altri, e so con certezza che a ucciderli è stata la guerra.
L’altra sera, a “Di Martedì” su La7, ancora Michele Santoro tornava sulla necessità di arrivare al più presto a una trattativa di pace. Gli è stato subito obiettato che nessuno la vuole la pace, ora: che l’unica possibilità è sostenere la resistenza degli aggrediti; insomma che l’unica possibilità è la guerra: anzi più guerra, più feroce, più aggressiva, più grande. Tanto è in Ucraina e in Russia che si muore.
E’ chiaro che un ritiro incondizionato di una delle due parti è un non-senso in una trattativa: lo era un anno fa, lo è a maggior ragione oggi. Ma possono essere introdotte delle variabili importanti. Per esempio, dubito che Putin sia interessato a estendere i confini del suo Stato -che già è il più vasto del mondo, peraltro-; mi pare più plausibile il pretesto addotto di avere una zona di sicurezza al confine ovest, con la zona Nato e con l’Unione Europea. Di questo si potrebbe discutere senza toccare gli assetti territoriali precedenti la guerra. E’ un passo in avanti. Del resto l’Ucraina non intende certo conquistare la Russia, neanche in parte; ha probabilmente analoghi interessi di sicurezza ai confini. E’ un punto in comune dunque, un punto di partenza importante. La comunità internazionale, se assume un ruolo neutrale, potrebbe farsi garante di quanto venisse concordato dalle nazioni belligeranti, come è sempre successo in tutte le guerre. Per assumere un ruolo neutrale è necessario giungere al più presto a un cessate il fuoco; e, a parte, cominciare a elaborare un piano di ricostruzione della nazione aggredita, utilizzando le risorse finora destinate a sostenerne la guerra. Sono solo esempi che affiorano alla mente di chi non è certamente “addetto ai lavori”.
Tuttavia, come osservavo un anno fa, in una civiltà con tanti difetti ma comunque ormai evoluta al punto di accettare la dimensione globale delle azioni dei singoli e dei popoli, si può intanto neutralizzare lo strumento inutile e pericoloso della violenza, e poi tornare all’esame rigoroso dei problemi e arrivare, magari gradualmente, a giuste soluzioni… Dicevo allora, e ripeto a maggior ragione oggi: «Vorrei solo che i telegiornali di stasera non raccontassero di altri dieci, cento, mille morti -ucraini, russi, soldati, civili, uomini, donne, bambini e bambine, vecchi e giovani- offerti come tributo agli orgogli nazionali e internazionali, di individui e di partiti, di profeti di venture e di sventure. Vorrei solo che ci si fermasse a ragionare, a scegliere, a decidere, senza il ricatto dei morti che cadono per la strada. Senza il ricatto del “male minore…”».
Eppure l’unico argomento di cui si discute è l’indiscutibile questione di principio dell’integrità territoriale di una Nazione sovrana: la recente Assemblea generale dell’ONU lo ha ribadito con forza, trascurando tuttavia analoghe situazioni passate e presenti: Libia, Palestina, Afghanistan, Nazione Kurda, per limitarsi alle attuali, ché per le passate ci vorrebbero pagine intere.
Tralasciamo le argomentazioni ‘per analogia’, come quelle relative alla guerra partigiana in Italia o in Francia nella II Guerra mondiale, in contesti del tutto differenti. Ma ignorare come la sicurezza ai confini sia stata sempre un caposaldo della politica internazionale -per tutti valga l’esempio dei missili di Cuba nel 1962- è grave incoerenza o malafede. Perfino gli “Accordi di Minsk”, di cui l’“informazione” parla molto ma forse conosce poco, partivano -nella loro approssimazione e indeterminatezza- dall’esigenza di fare comunque un passo in avanti verso una possibile pace futura: Steinmaier -Presidente della Repubblica Federale Tedesca- osservava che “Un patto ‘cattivo’ è sempre meglio di nessun patto”.
Temo molto che l’insistenza sulla sacrosanta questione di principio serva solo a respingere ogni prospettiva realistica di pace o almeno di armistizio: Biden non vuole saperne, poiché in Ucraina si gioca anche la sua rielezione; per il premier inglese Sunak è l’ultima ancora di salvezza di un ruolo politico internazionale del Regno Unito; e gli altri leaders occidentali sono piegati dalle sanzioni economiche alla Russia che loro stessi hanno imposte.
Eppure l’unica iniziativa da perseguire con tutte le energie è un accordo che porti alla pace: per l’Ucraina prima di tutto, per il suo presente e il suo futuro; per la Russia, che in questa guerra ha solo da perdere; per l’Unione Europea, che rischia la dissoluzione; per ‘Occidente -ammesso che questo voglia dire qualcosa-, bisognoso di riflettere sul suo ruolo oltre gli interessi immediati dei singoli Paesi. Con “buona pace” -si fa per dire- degli Stati Uniti e di Biden.
Ora, lo ribadisco con forza, fare la pace è l’unico verbo che si può coniugare al futuro.
Luigi Totaro