La caduta dell’amministrazione comunale di Rio il 16 gennaio scorso e i numerosi interventi apparsi sulle testate on-line nei giorni successivi offrono lo spunto per alcune riflessioni di natura etico-politica.
Il tema della corresponsabilità/complicità
Un primo nucleo di considerazioni viene da tre articoli, due di Mattia Gemelli (21 e 25 gennaio) e uno a firma Rossana Braschi, Manuela Chiros e Simona Cignoni (23 gennaio), nei quali si illustra come la condotta amministrativa autoritaria e accentratrice del sindaco abbia compresso sin dal 2018 ogni tentativo di dialogo e di contributo operativo da parte dei consiglieri.
Il tipo di analisi qui proposto mi esime dall’entrare nel merito di affermazioni - contrastate dall’opposta ricostruzione di Valeria Barbagli, Mirco Mancusi e Simonetta Simoni (25 gennaio) – pure necessarie alla formazione del giudizio del cittadino-elettore.
(...) i consiglieri in questione hanno condiviso per quattro anni e sette mesi quella che a loro giudizio è stata una gestione autoritaria della cosa pubblica senza dissociarsi. Particolarmente grave, in questa chiave, appare la posizione dell’ex-presidente del Consiglio comunale il quale disponeva di deleghe pesanti quali il bilancio e le politiche giovanili, ma soprattutto dei poteri e dello strumento (il Regolamento del Consiglio comunale) potenzialmente in grado di fermare l’involuzione autoritaria, garantire i diritti delle minoranze e attivare le commissioni consiliari, tutte manchevolezze impietosamente richiamate dalla lista di minoranza Terra Nostra in un articolo del 25 gennaio. A sua discolpa, l’ex-presidente invoca la giovane età iniziale (22 anni) e tuttavia gli anni passano e se i comportamenti non mutano ne scaturisce complicità. A quel punto è inutile coinvolgere Erasmo da Rotterdam o Socrate per giustificare un cambiamento di rotta a pochi mesi dalla fine del mandato: è più congruo il riferimento al gesto di Maramaldo sul campo di battaglia di Gavinana nel 1530.
L’espropriazione del diritto all’informazione
Ma c’è un secondo punto nell’esposizione dei quattro consiglieri che stimola una riflessione sul piano etico-politico: la mancata comunicazione al corpo elettorale di quella che essi denunciano come deriva autoritaria dell’amministrazione. Siamo dinanzi a una omissione che lede il fondamento del principio di rappresentanza politica cioè il dovere di informazione dovuto dall’eletto ai rappresentati.
Il mandato elettorale non è un rapporto privatistico tra l’eletto e i propri elettori, esso è generale e dunque realizza una obbligazione di natura pubblica rispetto all’intero corpo elettorale. La mancanza di democrazia nell’istituzione non colpisce solo la dignità del rappresentante, ma l’intero elettorato che deve essere messo nelle condizioni di manifestare il proprio dissenso. Il silenzio diventa allora comportamento omertoso e lesivo del principio di rappresentanza.
Si insiste su questo punto perché l’espropriazione dell’elettorato dalla conoscenza delle cose – un impedimento che ne compromette partecipazione attiva – ci sembra forse il più grave limite nell’esperienza di questa consiliatura.
Un caso esemplare da questo punto di vista è il valzer trasformista della primavera-estate 2020 quando due consiglieri, Cinzia Battaglia a maggio e Fortunato Fortunati ad agosto, abbandonarono la maggioranza senza fornire ai propri elettori motivazioni politiche. (...)
Ad aggravare sotto il profilo etico-politico la situazione, intervenne nello stesso agosto il passaggio del consigliere Barbagli dalla lista Terra Nostra alla maggioranza e il conferimento dell’incarico a vicesindaco.
Al termine della complessa operazione trasformista, l’amministrazione disponeva ancora della maggioranza numerica, ma al prezzo di un grave deterioramento del clima all’interno del consiglio. Per inciso, altre soluzioni più rispettose del galateo istituzionale (ad es., la richiesta alla minoranza di un appoggio politico a fronte di una condivisione di indirizzo su obiettivi qualificanti) avrebbero consentito di salvaguardare la qualità del confronto politico, ma esse non vennero praticate.
L’episodio induce allora a una riflessione su un tema ontologico della politica: un principio strettamente utilitaristico è sempre lecito e dunque il fine giustifica i mezzi? Il perseguimento della vittoria è l’obiettivo della politica o solo uno degli strumenti utili a realizzarne i fini? In altri termini, politica e potere sono sinonimi e dunque interscambiabili?
Sono quesiti che non presentano risposte univoche perché rimandano a interpretazioni diverse di quel particolare aspetto della relazione umana che è la politica e che andrebbero manifestate in via preliminare agli elettori al momento in cui si chiede loro una delega alla rappresentanza.
Tornando al tema guida del paragrafo, la gravità della crisi aperta dal valzer trasformista non fu sottoposta da nessuna delle parti consiliari alla conoscenza e al giudizio degli elettori attraverso un pubblico dibattito, ma si concluse con un comunicato di riassegnazione delle deleghe.
Naturalmente, all’interno della maggioranza non si registrò alcun distinguo.
La destabilizzazione dell’istituzione comunale
L’ultimo tema su cui si richiama l’attenzione del lettore riguarda gli avvenimenti che hanno portato alla fine della consiliatura e al commissariamento. Vi sono distinguibili due fasi: la sconfitta della maggioranza sul tema della portualità riese (19 dicembre 2022); la presentazione delle dimissioni con la decadenza immediata dell’amministrazione e l’apertura del commissariamento (16 gennaio 2023).
Tra le due date è maturata tra Rio Marina e Cavo l’aggregazione di una compagine variegata che ha saldato in modo innaturale partiti di centro-sinistra ed esponenti dichiaratamente di destra, una parte consistente della maggioranza e infine le minoranze consiliari.
Per inciso, anche la convergenza tra queste minoranze offre spunti di riflessione perché è avvenuta superando forti differenziazioni nella qualità dell’azione politica: da un lato una opposizione puntuale sui temi, collaborativa nelle proposte e soprattutto istituzionalmente responsabile (Terra Nostra); dall’altro consiglieri che esercitavano la propria funzione uscendo dall’aula per non votare o evitando accuratamente di intervenire quando presenti: una opposizione ‘da bar’, come è stata definita da una personalità politica locale.
Dinanzi a un arco così frastagliato di posizioni e comportamenti è naturale chiedersi perché causare un provvedimento così traumatico a pochi mesi dalla scadenza naturale del mandato con la consapevolezza di inceppare la macchina amministrativa e pregiudicare il buon esito della stagione turistica del nuovo anno.
Possiamo ipotizzare che si volessero negare all’amministrazione i vantaggi di immagine legati all’inaugurazione di importanti opere pubbliche, oppure che si intendesse infliggere al sindaco un colpo così grave da scoraggiarne la ricandidatura o infine che si volessero definire per tempo schieramenti, incarichi e modalità compensative inevitabili in una compagine variegata: tutte motivazioni in ogni caso legate a vantaggi personali o di partito che il blitz del 16 gennaio ha perseguito a danno della stabilità dell’istituzione comunale.
Insomma, per eliminare i topi si è incendiato il granaio e, ancora una volta, si è impedito che la crisi aprisse un dibattito pubblico attraverso la più corretta forma della presentazione di una mozione di sfiducia.
Dinanzi a tanta irresponsabilità, può essere d’aiuto ricordare che purtroppo il vezzo politico della decadenza è frequente nella storia amministrativa ‘piaggese’: ricordiamo la caduta di Fiorenzo Chiesa nel 1966 provocata dall’on. Tonietti, la caduta nel 2000 della giunta Roberto Antonini già messa in crisi da una pesante vicenda giudiziaria aperta sulla spiaggia del Cavo, la caduta nel 2012 della giunta Paola Mancuso a 10 mesi dall’insediamento provocata da Fortunato Fortunati per arrivare infine al 16 gennaio 2023 quando vittime ed esecutore si sono ritrovati alleati in una nuova destabilizzazione del comune.
In altri termini, quella che si è aperta oggi a Rio non è “una nuova fase” della politica riese come sostenuto da esponenti del PD elbano, ma l’ennesimo capitolo di una avvilente storia di malcostume politico le cui conseguenze negative potrebbero rivelarsi più gravi del previsto.
Infatti, ciò che è avvenuto a Rio Marina contrasta con la cultura politica della comunità di Rio Elba. Anche qui non sono mancati contrasti politici al calor bianco con il consueto contorno di denunce, ma essi dal dopoguerra ad oggi non hanno mai compromesso l’istituzione locale che è sempre considerata un bene primario.
Gli unici commissariamenti sono stati provocati dalla decisione di due sindaci (Catalina Schezzini 2019 e Claudio De Santi 2016) di concludere prematuramente il mandato. Per inciso, questo atteggiamento nei confronti dell’istituto comunale non può portare ad argomentare la superiorità morale di una comunità sull’altra, ma registra una diversità di comportamento politico; da questa è ragionevolmente possibile dedurre che l’operazione orchestrata tra Cavo e Rio Marina renderà ancora più difficile l’unificazione alimentando a Rio Elba il timore che prassi politiche così aggressive possano aggravare le condizioni della parte più fragile del territorio.
In conclusione, siamo consapevoli che le riflessioni sin qui sviluppate contribuiscano solo in parte ad orientare il comportamento elettorale. Altri elementi – ad esempio, la competenza amministrativa, la disponibilità a rappresentare l’insieme dei cittadini e non solo la propria fazione, la capacità di ascoltare la popolazione, di favorire e promuovere iniziative economiche, di garantire l’efficienza dei servizi amministrativi, di analizzare le dinamiche sociali e demografiche del territorio, i rapporti fiduciari, ecc. – accompagneranno l’elettore nella formulazione della sua scelta.
E tuttavia, vorremmo ricordargli che il voto si fonda su una delega della rappresentanza e che questa costituisce un patrimonio inalienabile e intrasferibile del cittadino: è il cardine del sistema liberal-democratico in cui viviamo. Valutare costantemente come gli eletti gestiscono e rispettano la nostra delega fa parte dell’equilibrio tra diritti e doveri su cui si regge l’intero sistema. Quando rinunciamo a questo controllo, ci poniamo nelle condizioni di essere ridotti a sudditi in casa nostra.
Giuseppe Paletta