L’imprenditore (legittimamente) guarda al profitto, l’amministratore (doverosamente) al bene pubblico. Il primo investe denaro per trarne guadagno, il secondo investe risorse per garantire diritti “a perdere”, quali, per esempio, l’istruzione, la sanità, i trasporti, la giustizia, il decoro della città, tutti servizi che non danno alcun guadagno, solo spese. Per questo non è affatto detto che un buon imprenditore, in quanto tale, possa essere naturalmente un buon amministratore, anzi, le due “professioni”, se così si possono definire, sono palesemente inconciliabili tra loro, se non altro per mentalità e formazione culturale. E lo diverrebbero ancor di più – inconciliabili, intendo - nel caso l’imprenditore dovesse assumere responsabilità di amministratore pubblico restando gestore, direttamente o indirettamente, dell’azienda di cui è proprietario. Perché in tal caso si introdurrebbe un altro serio impedimento, e cioè un evidente conflitto d’interessi di fatto irrisolvibile, se non con la vendita definitiva dell’azienda.
Berlusconi docet. Si dice che durante il periodo che era a capo del Governo, usasse spesso una porta girevole, dalla quale entrare e uscire a seconda degli argomenti in discussione all’ordine del giorno nelle riunioni del Consiglio dei Ministri. Molti, infatti, di quegli argomenti, riguardavano provvedimenti a favore, più o meno, delle sue numerose aziende, creando situazioni a dir poco problematiche dal punto di vista della concorrenza e della commistione fra pubblico e privato.
Al di là dell’apparente paradosso, credo, però, che gli elettori dovrebbero riflettere su quanto sarebbe rischioso affidare le sorti del loro Comune a chi pensa di essere capace di amministrare la cosa pubblica in quanto autodefinitosi imprenditore di successo, senza, tra l’altro, recidere il cordone ombelicale che lo lega alle sue numerose attività economiche, finanziarie e industriali presenti sul territorio.
Non so se mi sono spiegato.
Danilo Alessi