Care concittadine e cari concittadini,
celebrare l'anniversario della Liberazione dal nazi-fascismo quest'anno, il settentanovesimo per essere precisi, ha un significato particolare. Nell'aprile di cento anni fa, infatti, gli elettori italiani si recavano alle urne per scegliere i propri rappresentanti in Parlamento per l'ultima volta prima della fine della dittatura. Il primo governo Mussolini, allora in carica dopo la farsesca e tragica marcia su Roma e con il sostegno della monarchia, si era dimesso per permettere al suo padrone assoluto di chiamare nuovamente gli italiani alle urne, questa volta con una legge elettorale marcatamente maggioritaria che avrebbe regalato un ampio premio di maggioranza alla lista che avesse raggiunto il 25% dei voti. Si trattava di una calcolata mossa con cui Mussolini avrebbe blindato la propria posizione alla guida del Paese, una mossa sostenuta dalle squadracce fasciste, libere di imperversare su sedi, giornali, assemblee dei partiti di opposizione o non allineati all'uomo forte. Fu in questo clima di soprusi e violenze che si andò a votare e nonostante ciò le opposizioni, pur penalizzate dalla legge elettorale, ottennero numerosi consensi, entrando nel Parlamento aggiogato a Mussolini. Alla prima seduta delle Camere si levò dagli scranni di Montecitorio la vocel del segretario del Partito Socialista Unitario, Giacomo Matteotti il quale con lucida coerenza denunciava l'irregolarità di quelle farsesche elezioni: «Nessuno si è trovato libero, - diceva Matteotti - perché ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c'era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso». Era il 30 maggio 1924. La pervicace opera di denuncia dei brogli elettorali sarebbe costata a Matteotti, undici giorni più tardi, la vita. Il 10 giugno un'automobile partita dal cortile del Viminale, occupata da un gruppo di squadristi fascisti, lo prelevava a forza da pochi metri dalla sua abitazione romana, uccidendolo probabilmente a pugni e calci. Mentre le settimane passavano e di Matteotti non si avevano notizie cresceva lo sgomento anche in quell'opinione pubblica moderata che aveva simpatizzato per il fascismo e per Mussolini. Il 16 agosto l'imperatore, infine, era nudo perché il cadavere di Matteotti riemergeva dalla Macchia della Quartarella indicando a tutti l'esatta natura del fascismo: violenza politica nel nome del capo.
In pochi però ebbero la lucidità di comprendere che quella violenza politica sarebbe stata solo la premessa maggiore di una conclusione necessaria, il bellicismo stragista, l'esaltazione della guerra, su cui Mussolini avrebbe fondato gli obiettivi del regime. Dalla Libia all'Etiopia, dalla Spagna repubblicana all'Albania, dalla Grecia alla Serbia, il fascismo avrebbe ripetuto lo schema di quella violenza politica con cui aveva preteso di regolare i conti con Matteotti. E badate bene che gli italiani furono complici e spettatori, in gran parte passivi, di quella violenza. Furono la fame, le bombe, gli effetti della guerra voluta da Mussolini a svegliarli dal proprio ventennale torpore. Fu un risveglio traumatico ma necessario. Durante l'estate di ottant'anni fa una generazione successiva a quella di Matteotti, una generazione educata per servire da manodopera alla guerra fascista, ne raccolse inaspettatamente le idee, la coerenza e l'ostinazione per contribuire alla Liberazione dell'Italia dall'occupazione militare nazista e dall'ultimo feroce tentativo di Mussolini di dare al fascismo una seconda vita: la Repubblica sociale italiana. Dobbiamo a quegli uomini e a quelle donne se l'Italia, a differenza di altri paesi sconfitti come il Giappone e la Germania, poté darsi una Costituzione repubblicana e democratica in autonomia dalla volontà degli Alleati. Dobbiamo a loro se libertà personale, di associazione, di opinione e di scelta confessionale, se uguaglianza giuridica e sostanziale, se ripudio della guerra e pluralismo culturale e linguistico, se ricerca scientifica e tutela dei lavoratori entrarono nell'alfabeto della nostra convivenza civile diventando i princìpi ispiratori delle leggi ordinarie di uno Stato nuovo, inclusivo del contributo delle donne, rispettoso del diritto internazionale, protettore di minoranze e marginalità, distruttore di ostacoli al progresso civile e materiale della società.
Eppure, a cento anni dall'omicidio di Matteotti, a ottanta dall'inizio della Resistenza, venti di guerra e pulsioni autoritarie ritornano a ricordarci come le conquiste della nostra democrazia possano essere messe in discussione. La pulsione autoritaria a servire il capo, il culto di una visione gerarchica dei rapporti sociali, l'opzione acritica per la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie sono la premessa perché quella violenza politica, messa a tacere il 25 aprile del 1945, ritorni ad essere un metodo praticato, tollerato, sostenuto. Quando si chiudono gli spazi al pluralismo delle idee, quando si preferisce attaccare gli uomini e le donne anziché confutarne le opinioni, quando si risponde alla libera manifestazione del pensiero con le manganellate, quando i luoghi di detenzione diventano aree di sospensione dei diritti umani, come i casi della censura ad Antonio Scurati, della querela a Luciano Canfora, del pestaggio degli studenti di Pisa e delle torture al carcere Beccaria di Milano dimostrano, allora, si mette in discussione il senso della scelta fatta il 2 giugno del 1946. Non ultimo, nel nostro futuro prossimo, saremo chiamati ad esprimerci con un referendum sul rafforzamento dei poteri del presidente del Consiglio. La pulsione del capo autoritario, sganciato dal controllo di altri poteri, ritorna, come nella primavera di cento anni fa. È per questo che, oggi più che mai, ricordare questa data, il 25 aprile, significa ridare vita alla lezione di Matteotti e di chi, come il partigiano volontario ferajese Giordano Piacentini scelse nel fiore degli anni di non concedere più nulla al fascismo, pagandone il dazio il 7 aprile 1945 nel campo di concentramento di Mauthausen. Viva la Repubblica antifascista, viva la Resistenza, viva la Costituzione!
Marco Ambra
Foto di Adolfo Tirelli