Pubblichiamo integralmente il documento sulle aree protette e la modifica della 394 che Legambiente ha inviato al ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin in occasione degli Stati generali delle Aree protette che si concludono oggi a Roma.
Obiettivo 30% entro il 2030: più biodiversità contro i cambiamenti climatici
Per contrastare la crisi climatica serve un poderoso cambio di passo attivando in questo decennio politiche efficaci e coerenti con gli obiettivi globali per frenare la perdita di biodiversità e il degrado del Pianeta. L’Unione Europea sostiene, in coerenza con il mondo scientifico e culturale, che la perdita di biodiversità e la crisi climatica sono interdipendenti e se una si aggrava anche l'altra segue la stessa tendenza e, per raggiungere i livelli di adattamento e mitigazione necessari ha proposto agli Stati membri obiettivi ambiziosi e concreti per frenare il climate change.
Con la Strategia per la biodiversità, l’Unione Europea si propone di mettere la biodiversità del continente sulla via della ripresa entro il 2030 e di incoraggiare l'azione globale in modo che entro il 2050 tutti gli ecosistemi del mondo siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti. Per questa ragione ha fornito indicazioni su come raggiungere gli obiettivi: creare nuove zone protette in Europa e tutelare con strumenti giuridicamente vincolanti il 30% della superficie terrestre e marina; prevedere una protezione più rigorosa degli ecosistemi garantendo il 10% del territorio a protezione integrale; ripristinare gli ecosistemi degradati e aumentare i terreni agricoli utilizzati a biologico per migliorare la loro biodiversità; ridurre del 50% l’uso e la nocività dei pesticidi e ripristinare almeno 25.000 Km di fiumi a scorrimento libero; arrestare e invertire il declino degli impollinatori e piantare 3 miliardi di alberi entro il 2030.
Il declino della biodiversità è uno dei maggiori problemi ambientali che l’umanità si trova ad affrontare: l’impatto antropico ha trasformato il 75% degli ambienti naturali delle terre emerse e il 66% degli ecosistemi marini, messo a rischio almeno un milione di specie animali e vegetali dopo averne cancellato per sempre un numero imprecisato. Appare oramai evidente che la salute e il benessere umano sono strettamente legati alla vitalità e alla resilienza dei sistemi naturali, per questo è importante considerare la salute come un unicum che riguarda la connessione tra la dimensione umana e quella planetaria (One World-One Health).
Per mantenere il Pianeta in equilibrio e proteggere la biodiversità occorre perciò essere più responsabili nell’utilizzo delle risorse naturali, fondamentali per produrre cibo, energia e altri servizi ecosistemici, e poterne fruire per migliorare il nostro benessere. Una responsabilità che chiama direttamente in causa il ruolo delle aree protette che hanno come missione la tutela della biodiversità e del nostro benessere economico e sociale. Persone sane vivono in ecosistemi sani, e le aree protette sono riconosciute, a livello globale, come lo strumento più adeguato a tutelare la biodiversità, prevenire problemi di salute pubblica e promuovere stili di vita sostenibili. Più biodiversità contro la crisi climatica è un obiettivo raggiungibile e alla portata del nostro Paese, a condizione che si vada oltre le enunciazioni di principio e si proceda in maniera concreta: abbiamo poco tempo, e per raggiungere l’obiettivo di proteggere il 30% di territorio marino e terrestre entro il 2030 serve una determinazione politica che non abbiamo ancora visto.
La natura protetta ci salverà dal climate change
La natura è il regolatore climatico più efficace ed anche il più potente elemento di immagazzinamento della CO2, e la perdita di biodiversità influenza direttamente la stessa capacità degli ecosistemi di contribuire a frenare il surriscaldamento del pianeta. Conservare la biodiversità è quindi una delle prime condizioni per aiutare a ridurre le emissioni di gas serra e a rendere gli ecosistemi naturali più resistenti e capaci di proteggersi da soli. L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sottolinea la necessità di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C rispetto all’era preindustriale, e propone di dimezzare l’attuale livello di emissioni entro il 2030 e arrivare a emissioni zero nette entro il 2050. Il climate change, perciò, deve essere il riferimento per incoraggiare l’avvio di politiche territoriali nuove e agevolare scelte strategiche necessarie ma fin qui rimandate perché non si è percepita l’urgenza di rispondere alle sfide globali.
L’IPBES (Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha, invece, ricordato che le attività antropiche hanno un impatto negativo sulla natura a un ritmo da cento a mille volte più veloce della media degli ultimi 10 milioni di anni, e che la perdita di biodiversità minaccia la capacità degli ecosistemi di fornire i servizi da cui l’umanità dipende. I cambiamenti climatici si stanno verificando a ritmi talmente veloci che numerose specie animali e vegetali stentano ad adattarsi con il rischio, se la temperatura media mondiale dovesse continuare ad aumentare, di aggravare ancora di più la velocità del tasso di estinzione.
Secondo l’ONU contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1,5°C potrà ridurre in maniera significativa i danni climatici e gli effetti negativi sugli ecosistemi e la biodiversità. Un aumento della temperatura globale compreso tra 1,5°C e 2°C causerebbe la perdita di significativi habitat essenziali per numerose specie e porterebbe alla progressiva riduzione del loro areale aumentandone il rischio di estinzione. Diversi studi ritengono, infine, che un aumento delle temperature di 2°C causerebbe l’estinzione del 5% delle specie e crescerebbe fino al 16% per un aumento di 4,3°C.
In Europa la perdita di biodiversità continua a un ritmo allarmante, e secondo il rapporto 2020 State of Nature in the EU, il 39% delle valutazioni delle specie di uccelli selvatici e il 63% delle valutazioni delle specie non di uccelli protette sono in uno stato scadente o negativo, mentre solo il 15% delle valutazioni degli habitat protetti mostrano un buono stato di conservazione.
Lo scenario delineato dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (CMCC) attraverso il Rapporto “Analisi del rischio - I cambiamenti climatici in Italia” entro fine secolo prevede: aumento delle notti tropicali con temperatura maggiore di 20 gradi unitamente a sequenze di giorni senza pioggia, tanto che la portata di fiumi e corsi d’acqua potrebbe ridursi del 40% e il rischio incendi aumentare del 20%, mentre le temperature estive al sud sfioreranno costantemente i 40 gradi.
Territori e comunità locali contro il climate change
Il cambiamento climatico è il rischio maggiore a cui è sottoposto il nostro fragile territorio, con effetti negativi sugli ecosistemi e la biodiversità soprattutto a causa dell’aumento dei rischi naturali (dissesto, eventi estremi, incendi, riduzione del permafrost, arretramento dei ghiacciai, siccità, desertificazione, aumento dei patogeni, etc.…) che provocano, come conseguenza diretta, la riduzione dei servizi ecosistemi erogati dal capitale naturale. La lotta alla crisi climatica è la nuova sfida che investe queste aree marginali, una sfida che si aggiunge alla lotta “storica” contro la crisi demografica e lo spopolamento che questi territori combattono da decenni. Le due sfide, climatica e demografica, saranno le più impegnative da affrontare per questi territori fragili ma ricchi di biodiversità e di natura protetta. Nei “territori del margine” per la gran parte interessati da parchi e riserve, è presente la natura protetta che è una risorsa strategica che il nostro Paese deve utilizzare per mitigare gli effetti del climate change e creare opportunità a favore delle comunità locali.
La sfida globale del cambiamento climatico necessita di strategie e di coerenza tra le politiche nazionali e quelle territoriali, ma serve anche un maggior protagonismo delle aree naturali protette che “detengono” il capitale naturale che eroga i servizi ecosistemici. Le aree protette rappresentano la grande banca in cui i servizi ecosistemici, beni comuni indispensabili alla vita, considerati inesauribili e privi di valore economico (biodiversità, acqua, suolo, foreste, energia, etc..), si generano e rigenerano, finendo per acquistare un formidabile valore anche per l’economia dei territori coinvolti. Parchi e riserve devono essere la leva per stimolare l’economia generata dalla natura che proteggono ma che devono valorizzare, secondo modelli di sviluppo sostenibile più coerente con le azioni di tutela della natura forti e strutturate anche nel lungo periodo. Per i parchi l’economia generata dall’uso sostenibile delle risorse naturali e dalla loro trasformazione in beni e servizi finali nel settore agro-silvo-pastorale (bioeconomia circolare) è perciò il punto di forza su cui continuare a puntare.
In questi anni, le aree naturali protette sono state una grande sollecitazione per i territori coinvolti a misurarsi con politiche di sviluppo innovative basate sulla qualità ambientale, la tutela della biodiversità e la coesione territoriale. La gran parte delle comunità interessate dalle aree protette hanno saputo dimostrare che investire sulla natura è un “affare”, anche perché i parchi e le riserve non sono solo buona conservazione di specie e habitat, ma sono state anche una opportunità per mettere in atto buone pratiche di sostenibilità e sostegno alle produzioni di eccellenza nel settore agro-silvo-pastorale. Nei quasi 4mila comuni che fanno parte di un’area protetta o di un sito della Rete natura 2000 si è consolidata una importante economia della natura: nei parchi nazionali e regionali sono presenti oltre 850mila imprese; nei soli parchi nazionali la superficie agricola utilizzata (SAU) ammonta a 752.400 ettari (il 50,9% del totale) con 55mila occupati diretti e una diffusione di imprese agricole del 21,4% (a livello nazionale è il 13%). La filiera agroalimentare e le produzioni nelle aree protette conta 733 prodotti di qualità certificati di cui 150 dop/doc/igp; 263 prodotti della tradizione agroalimentare PTA; 198 prodotti classificati dall’Atlante dei prodotti tipici dei Parchi e 114 certificati dall’INSOR (istituto nazionale di sociologia rurale).
Più potere alle aree protette contro i cambiamenti climatici
Le aree protette devono essere la leva per stimolare l’economia green e laboratori di sviluppo locale sostenibile dove attuare la transizione ecologica per decarbonizzare l’economia raggiungendo la neutralità climatica e frenare la perdita di biodiversità. Un impegno che è sempre stato un obiettivo delle nostre aree protette che, tra luci e ombre, hanno sperimentato e praticato la “via italiana per la tutela della natura” che ha contribuito a rendere l’Italia più bella, più green e ricca di ecosistemi unici contribuendo al successo del Made in Italy. In questi decenni l’esperienza italiana di tutela degli ecosistemi si è consolidata secondo un approccio originale che, attraverso scelte collettive e condivise, ha dato vista a un sistema di aree protette che hanno saputo tenere assieme conservazione della natura e sviluppo sostenibile dei territori interessati.
I parchi sono stati portavoce e interpreti della necessità di mantenere il livello di coesione territoriale garantito dalle piccole comunità che rendono produttivi i luoghi più belli del nostro Paese e, in questo delicato equilibrio e gioco di rimandi, che si esercita al meglio il ruolo del parco: tutelare la bellezza e la natura per consentirne una buona fruizione che garantisca a sua volta presidio e manutenzione e opportunità di sviluppo locale. Ma la realtà dei parchi modello e/o laboratori di sviluppo locale dove natura e crescita sostenibile convivono, purtroppo, non sempre si è tradotto in realtà e l’urgenza di vincere la sfida della transizione ecologica deve aiutare le aree protette e le loro comunità locali a essere più protagonisti per cogliere tutte le opportunità che ne derivano.
Cambiare per rigenerarsi
Serve un cambiamento profondo del sistema nazionale delle aree protette per rilanciarne il protagonismo, che deve interessare in maniera significativa l’agire e l’essere delle aree protette. Un cambiamento in profondità e non limitato all’apparenza, non piccoli aggiustamenti di facciata ma una vera rivoluzione che deve interessare tutti: chi gestisce le aree protette, le comunità locali e gli amministratori interessati, e deve coinvolgere i portatori di interessi e chi nelle aree protette produce e opera.
Lo abbiamo già detto e lo ribadiamo ancora oggi: molti enti parco appaiono più orientati a una sopravvivenza istituzionale che all’affermazione della pratica del parco sul loro territorio. Un modo di agire che non si concilia con le aspettative dei cittadini e gli interessi (economici, sociali, politici, etc..) che ruotano attorno al sistema delle aree protette non permettono più a questi Enti di continuare in questo lento e inesorabile declino. Per questo alle aree protette non è consentito di sopravvivere nell’ombra: o la loro presenza si apprezza o non sono. E per evitare che vengano considerate irrilevanti, le aree protette devono superare la fase del lungo e tormentato logoramento di leadership territoriale in cui ancora si trovano, e devono incamminarsi su una nuova strada e su un percorso riformatore che rimetta al centro gli obiettivi e la missione che ogni singola area deve raggiungere.
Le aree protette devono essere i player territoriali in grado di orientare verso la sostenibilità le comunità locali, ritornare ad esercitare il ruolo di leadership nei loro territori e devono disegnare un orizzonte ed uno scenario avanzato e innovativo, perché solo così si può dare ai parchi la possibilità di uscire dalla logica del fortino assediato da difendere e affrontare con determinazione i temi della transizione ecologica. L’aggiornamento della L. 394/91 deve avere l’ambizione di porre al centro gli obiettivi globali di frenare la crisi climatica e la perdita di biodiversità, aiutare il nostro Paese a raggiungere gli obiettivi al 2030 e rimettere al centro delle politiche territoriali per la transizione ecologica su cui, al momento, le aree protette sono ancora marginali.
La legge 394/91 deve essere rilanciata e non stravolta
Per garantire che gli obiettivi globali vengano rispettati e rendere le aree protette protagoniste della transizione ecologica c’è la necessità di un aggiornamento della legge 394/91 per adeguare la norma alle direttive comunitarie e alle novità intervenute in questi anni al nostro sistema legislativo, ma anche per sanare i danni apportati da aggiustamenti parziali e da modifiche che hanno snaturato la 394/91 senza incidere sulle questioni di fondo.
La necessità dell’aggiornamento della legge è un dato riconosciuto da più parti, ma è altrettanto noto che in questi anni si è preferito la strada degli aggiustamenti parziali, attraverso atti parlamentari e governativi, anziché procedere a modifiche organiche e condivise frutto di una discussione di merito. Modifiche che hanno sempre preso di mira l’obiettivo di modificare la governance dei Parchi nazionali affinché nella nomina dei presidenti si garantisse la maggioranza politica di turno al governo. Si è preferito rimaneggiare la legge per gestire il potere nei parchi anziché rafforzare le norme per rendere più efficace il potere dei parchi nei territori e attuare strategie utili per la transizione ecologica, combattere la crisi climatica e frenare la perdita di biodiversità.
La legge quadro sulle aree protette n.394/91 è una delle migliori normative in campo ambientale, e la sua emanazione ha segnato l’avvio di una strategia che ha permesso all’Italia di diventare leader in Europa nell’impegno per la tutela della biodiversità, per la presenza e la diffusione di specie e habitat di interesse comunitario e per la qualità dei territori e dei paesaggi protetti. Ha permesso di realizzare un sistema di tutela che ha saputo “regolare” le esigenze di conservazione della natura con quelle di crescita sostenibile dei territori e delle comunità locali interessate dalle aree protette.
Si deve a questa legge la diffusione su tutto il territorio nazionale di un sistema di aree protette che oggi conta: 871 tra parchi e riserve (nazionali, regionali e locali) con oltre 5 milioni di ettari di territorio protetto a terra e a mare, che copre una percentuale dell’11% del territorio nazionale, e coinvolge tutte le regioni e 2.500 comuni (la gran parte piccoli o piccolissimi) con una popolazione complessiva di oltre 10 milioni di cittadini residenti. In oltre tre decenni di corretta applicazione della legge 394 la percentuale di territori protetti è passata dal 3 all’11%, sono nati gli Enti parco come un nuovo soggetto istituzionale autonomo (oggi sono quasi 200) nei quali sonno state garantite le rappresentanze delle istituzioni locali, delle università e della scienza, delle associazioni e della società civile che hanno potuto decidere delle scelte da attuare attraverso la loro presenza nei Consigli direttivi degli Enti parco.
La legge 394/91 ha favorito la riscoperta di territori marginali che dopo l’istituzione dell’area protetta hanno ritrovato interesse e ricevuto risorse pubbliche per invertire le dinamiche di sviluppo, ed ha permesso di realizzare azioni di conservazione della natura che hanno salvato specie dalla estinzione e tutelato habitat a rischio. La rete dei parchi e delle riserve frutto della 394/91 ha garantito la tenuta fisica di tanta parte del nostro territorio, ha contrastato il dissesto idrogeologico ma anche lo spopolamento dei territori garantendo, attraverso la collaborazione con le comunità locali, la tenuta sociale dei territori protetti.
Le aree protette nate grazie alla legge 394/91 moderne e condivise, sono state portavoce e interpreti della necessità di mantenere il livello di coesione territoriale, garantito dalle piccole comunità coinvolte nella gestione della natura, e a rendere produttivi i luoghi più belli del nostro Paese. In generale la legge quadro, ha dato una spinta significativa all’economia del benessere e della natura, creato nuova occupazione, soprattutto nel settore turistico e nei servizi, e reso il nostro Paese migliore più bello e ricco di paesaggi e specie faunistiche che rischiavano di scomparire, ed ha accompagnato la crescita di un sistema di tutela non elitario e riservato a pochi “esperti” ma diffuso e partecipato dai cittadini, le comunità e le istituzioni locali.
Il dibattito in corso sulla modifica della legge 394/91
Sono all’esame della VIII Commissione del Senato due disegni di legge di riforma della legge 394/91: il primo a firma del Senatore Gianni Rosa di Fratelli d’Italia (DDL AS 948) presentato a settembre 2023, e il secondo a firma del Senatore Michele Fina del Partito Democratico (DDL AS 1048) presentato a marzo 2024. Provvedimenti che, nella seduta della Commissione dello scorso 18 settembre, si è deciso di congiungere in un unico testo. Crediamo sia una decisione opportuna, sia per raggiungere la più ampia condivisione sul testo finale e per inserire dei miglioramenti al DDL 948 che, sebbene prendesse spunti da un precedente testo di modifica proposto in precedenti legislature, contiene una serie di proposte non opportune che in sede di audizione Legambiente ha avuto modo di evidenziare. Consideriamo invece il testo proposto dal Sen. Fina molto più adeguato e condivisibile e coerente con le necessità di una moderna visione della legge 394/91, anche se aspettiamo di esprimere un giudizio più complessivo sul testo definitivo che sarà la sintesi (si spera migliorativa) delle due proposte di legge.
Auspichiamo che anche sul testo di sintesi riprendano le audizioni e chiediamo formalmente al Ministero di esercitare la sua azione affinché la discussione di questi Stati generali contribuisca a migliorare le proposte in campo.
E, comunque, la revisione deve rendere la legge più coerente con le esigenze di tutela del nostro Capitale naturale, rafforzare il sistema delle aree protette rispetto alle nuove sfide rappresentate dagli obiettivi posti dalla Nature Restoration Law e dalla Strategia Europea per la biodiversità al 2030 al fine di garantire il raggiungimento di istituire il 30% di aree protette entro il 2030.
Aggiornare la legge 394/91 è una necessità
Abbiamo sempre pensato che non si ridà slancio ai parchi e alle aree protette del nostro Paese solo attraverso la modifica della legge. Serve altro per rilanciare un sistema che rappresenta un pezzo fondamentale del nostro Made in Italy in termini economici, di benessere e di crescita sociale e culturale, e porre le aree protette al centro della transizione ecologica.
Ribadiamo pertanto la richiesta: a quando la celebrazione della Terza Conferenza delle aree protette che affronti l’obiettivo di proteggere la ricca biodiversità presente nel nostro Paese e fornisca agli enti gestori, al sistema della ricerca, alle imprese, ai cittadini e alle comunità strumenti adeguati ad affrontare la transizione ecologica e raggiungere gli obiettivi su clima e biodiversità al 2030?
Ma la modifica della legge ha una sua ragion d’essere per aggiornare una legislazione che risente del tempo e delle nuove competenze che si devono affidare ai parchi (le funzioni che avevano le province, la gestione dei siti natura 2000, la gestione delle riserve naturali e la sorveglianza dopo il passaggio del CFS ai Carabinieri ad esempio), per poter gestire al meglio i successi nel campo della conservazione della biodiversità (si salva dall'estinzione il camoscio appenninico ma cresce anche la presenza di fauna selvatica cacciabile e le specie invasive), per promuovere il turismo attivo, la gestione forestale sostenibile, l'agricoltura e la zootecnia biologica e frenare il consumo di suolo per produrre beni e prodotti riducendo le emissioni in atmosfera e il consumo di risorse naturali.
La modifica della L.394/91 deve servire anche a sburocratizzare gli enti che gestiscono le aree protette terrestri e marine, per meglio garantire la tutela della biodiversità attraverso procedure autorizzatorie certe e trasparenti (es. sportelli unici), l’applicazione di sistemi di certificazione e innovazione delle procedure (es. GPP/CAM).
Il mare ha bisogno di maggiori attenzioni e di risorse
Serve aggiornare la normativa per la tutela del mare e delle aree marine protette, per colmare un gap d’attenzione già presente nella formulazione originaria della legge quadro. Il nostro Paese dispone di una importante rete di aree marine protette del Mediterraneo, con una varietà di ambienti e di eccellenze che spazia dal parco archeologico sommerso di Baia e Gaiola alle ultime dune dell’Adriatico, dai graniti paleozoici e le praterie di Posidonia di Tavolara al coralligeno di Porto Cesareo.
Si tratta di realtà che tutelano buona parte della biodiversità marina del Mediterraneo e degli ambienti naturali delle isole del nostro Paese, dove sono state realizzate buone pratiche in materia di gestione dell’ecoturismo, della nautica, della subacquea, della piccola pesca artigianale e della valorizzazione del pescato locale. Oggi nelle aree marine protette si possono fare più cose e meglio di quante se ne possano fare dove il mare non è tutelato: è più facile immergersi (Portofino detiene il record di immersioni nel nostro Paese), è più facile ormeggiare la propria barca (alle Egadi l’area marina protetta allestisce campi boe nelle baie più belle per circa duecento imbarcazioni), è più redditizio pescare (a Torre Guaceto i pescatori hanno ridotto le uscite e aumentato le loro catture).
Ma per tutte queste straordinarie eccellenze di gestione il nostro Paese destina pochissime risorse economiche, meno di quanto i nostri cugini d’oltralpe destinano a un unico parco regionale della Corsica. In questo caso la prima modifica da fare sarà quindi di natura contabile, perciò, chiediamo di almeno triplicare la dotazione finanziaria per le aree marine protette.
In secondo luogo, occorrerà emancipare gli organismi di gestione dalle vicende amministrative locali: è impensabile che la gestione di aree così importanti possa dipendere dallo …stormir di fronde che si registra in comuni di poche migliaia di anime. Ben vengano allora gli enti di gestione autonomi per le aree marine protette (perché non i Parchi marini?) i Consorzi di gestione fra enti locali e altri soggetti (Università, associazioni ambientaliste, Regioni) già sperimentati con successo in più di una circostanza che restituiscono autonomia al soggetto gestore e lo tutelano da un eccesso di dipendenza dalla politica locale.
Una nuova governance e strumenti moderni per rilanciare le aree protette
Occorre modificare la Legge 394/91 anche per semplificare la vita dei cittadini che vivono nelle aree protette e rendere più agevole l’acceso ai servizi da parte degli operatori economici che vi lavorano, e rendere la burocrazia delle aree protette più coerente con le altre. Per questo nei parchi abbiamo bisogno di una classe dirigente preparata e capace di cogliere le nuove sfide: una classe dirigente rinnovata e competente slegata da nomine di partito e da logiche politicistiche, con più donne e meno pensionati ai vertici dei parchi. Proponiamo un modello di governance nuovo e aperto ai giovani e alle donne: la rappresentanza di genere e quella generazionale dell'attuale gruppo dirigente è la cifra evidente di quanto i parchi siano sistemi chiusi.
Si ponga un freno sulle nomine di pseudo esperti troppe volte scelti tra le seconde file della politica o degli amministratori locali e si intervenga sulla deriva localistica che affida ai sindaci in carica la presidenza che rischia di soffocare la vita e l’autonomia dei parchi e di minare alla base uno dei pilastri della legge: l’autonomia dell’Ente parco in quanto espressione di un equilibrio di interessi nazionali e locali. La nomina di sindaci in carica non è una novità recente ma, purtroppo, una deriva a cui assistiamo da anni al pari dell’aggiramento delle norme sulla incompatibilità che hanno permesso la nomina di pensionati, il ricorso ai commissariamenti e la nomina di direttori facenti funzioni, le designazioni di esponenti di partito per conto dei Ministeri o della componente scientifica e persino dei rappresentanti delle associazioni ambientaliste: fattori che hanno contribuito alla delegittimazione e in alcuni casi al degrado della governance dei Parchi nazionali.
Si rilanci uno strumento di programmazione e di finanziamento del sistema nazionale delle aree naturali protette (comprese le AMP e quelle regionali) ricostituendo un luogo di discussione comune tra il Ministero, le Regioni e le Autonomie locali che rilanci la leale collaborazione e affronti il finanziamento, la programmazione e la gestione condivisa delle aree protette.
Si renda effettiva la valorizzazione dei servizi ecosistemici e l’autofinanziamento per garantire entrate autonome per i parchi, e si fermi l'assalto di bracconieri e incendiari, e si intervenga sull'intollerabile ritardo nell'approvazione di piani e dei regolamenti dei parchi.
Punto nodale, e non più rinviabile, è quello del ruolo delle Comunità del parco e la mancanza di istituti di partecipazione dei cittadini. Per noi la riforma della L.394/91 deve ripartire da questa esigenza: riconnettere le comunità locali con l'ambiente, la bellezza e la biodiversità, per rendere protagonisti i cittadini e le imprese dell'enorme sforzo da compiere per frenare la perdita della biodiversità e il riscaldamento del pianeta, per salvare la casa comune della quale le aree protette sono le fondamenta sempre più indispensabili.
Cosa si deve riformare della legge 394/91?
Legambiente non ha mai negato la necessità di una revisione e aggiornamento della legge 394/91 e siamo sempre stati disponibili a fornire il nostro contributo in maniera leale e ricercando l’equilibrio migliore, senza per questo rinunciare alle nostre idee. La nostra storia è stata sempre caratterizzata da una visione ampia del tema della protezione e non in una logica di parte, perché non ci sentiamo un pezzo di corporazione ma, al contrario, siamo portatori degli interessi generali che non abbiamo mai perso di vista fin dalla nascita della legge 394/91 del cui successo siamo stati protagonisti dall’inizio. Possiamo ben dire che abbiamo fatto bene a sostenere la nascita della legge 394/91 e chiedere con forza la creazione di un sistema di aree protette per la tutela della natura del Paese, e rivendichiamo con orgoglio di essere stati protagonisti, fin da subito, nell’accompagnare la crescita di un sistema di tutela che non fosse elitario e riservato a pochi “esperti” ma diffuso e partecipato dalle comunità e dalle diverse istituzioni a partire dai sindaci e gli amministratori locali.
Abbiamo accompagnato l’applicazione della legge 394/91 senza ambiguità e sostenuto la sua corretta applicazione quando, invece, la gran parte del mondo ambientalista puntava sul fallimento della legge ed era ammaliato dalla cultura dei sovraintendenti della natura ai quali si doveva demandare la tutela del territorio al di là della volontà dei sindaci o delle popolazioni locali.
Conosciamo perciò i meriti di una norma che ha svolto un ruolo fondamentale in questi anni, e abbiamo ben chiaro cosa è necessario modificare per far crescere la percentuale di natura protetta. Nel nostro Paese esiste una lunga lista di parchi e riserve in attesa di essere istituite, e noi di Legambiente ne abbiamo identificate quasi 80, di queste 40 sono ancora in attesa di essere istituite nonostante leggi nazionali e regionali le prevedano, e per accelerarne l’istituzione è necessario modificare la legge 394/91: attualmente l’iter istitutivo dura oltre 8 anni di media e con questi ritmi raggiungeremo l’obiettivo del 30% di territorio e di mare protetto solo nel 2097.
La riforma della legge deve, in sintesi, fornire alle aree protette gli strumenti per affrontare le sfide di una crisi climatica che impone, a chi deve tutelare la biodiversità, di dare indicazioni sul consumo di suolo e una spinta alla crescita dell’agricoltura biologica e affrontare con decisione i temi del rapporto con le comunità locali e con chi nei parchi lavora e produce nel rispetto dell’ambiente, migliorando la qualità della biodiversità e costruendo bellezza e socialità.
Sintesi dei principali punti della 394/91 da rivedere:
1 Aggiornare la normativa sulla tutela del mare ancorata a norme risalenti al 1982 e adeguare la governance di tutte le AMP ai consorzi e/o enti di gestione autonomi; per ogni AMP prevedere una dotazione organica e finanziaria adeguate, e strumenti di pianificazione autonomi; superare la commissione di riserva a favore della comunità dell’area marina protetta; equiparare le funzioni, la selezione e il reclutamento del Direttore secondo le norme omogenee ai Parchi nazionali;
2 Accelerare l’iter istitutivo delle aree naturali protette perché i procedimenti sono macchinosi e incerti e durano troppo e, sebbene la legge preveda 18 mesi, in media occorrono oltre 8 anni (alcuni parchi attendono da 23 anni, altri da 17, etc..) tempi che non garantiscono di raggiunge l’obiettivo del 30% entro il 2030; aggiornare l’Elenco ufficiale delle aree naturali protette (EUAP) per avere chiarezza sui dati e le percentuali di territorio protetto (il 60 e ultimo aggiornamento risale al 2010) inserendo nell’Elenco solo le aree in cui è esclusa l’attività venatoria;
3 Rafforzare gli Enti parco nelle strategie di tutela di area vasta e nella programmazione territoriale (enti intermedi); rivedere la natura giuridica di questi enti pubblici non economici inquadrati nella legge 70/75 (come l’Inps); attribuire agli Enti parco le funzioni di sorveglianza e vigilanza del territorio, la gestione delle aree Natura 2000 e delle Riserve naturali statali; potenziare e aggiornare le piante organiche; avvalersi di un Comitato scientifico consultivo di supporto alle decisioni;
4 Garantire tempi certi per l’approvazione dei Piani dei parchi e favorire l’integrazione con la pianificazione regionale; prevedere una pianificazione congiunta con le Regioni per l’attuazione dei Piani Paesaggistici sui territori di competenza; rafforzare gli strumenti di pianificazione volontaria per il clima e la biodiversità (es. piani locali per la biodiversità, piani di adattamento e prevenzione dei rischi); affidare ai parchi che hanno il Piano vigente la delega (Sportello unico autorizzativo) per la gestione del vincolo paesistico, forestale e idrogeologico, la gestione e le autorizzazioni per gli interventi nelle aree Natura 2000 e nelle Riserve naturali dello Stato;
5 Migliorare la gestione faunistica nelle aree protette per garantire una efficace tutela delle specie a rischio e contrastare la presenza di specie invasive e la fauna selvatica cacciabile; ribadire il divieto di caccia nelle aree naturali protette e prevedere idonei strumenti di intervento in conformità al parere obbligatorio dell’ISPRA; affidare agli Enti parco la regolamentare delle aree contigue esterne al perimetro protetto (buffer zone) promuoverne l’individuazione e la disciplina gestionale.
6 Ampliare la classificazione delle aree naturali protette per garantire l’integrazione delle direttive comunitarie con la gestione delle aree protette inserendo nella classificazione delle aree protette quelle afferenti alla Rete Natura 2000, le Zone umide di cui alla convenzione Ramsar e le OECM (Other Effective area-based Conservation Measures) individuate secondo criteri di conservazione certi e misurabili e che, comunque, escludano l’attività venatoria;
7 Rafforzare le competenze della Comunità del Parco nella gestione dell’area protetta e nella definizione di strumenti di programmazione e pianificazione; prevedere la Consulta del Parco quale organismo consultivo della Comunità per garantire la partecipazione volontaria dei cittadini, dei portatori di interesse e del partenariato economico e sociale locale;
8 Integrare la tutela tra le diverse tipologie di aree protette sia marine che terrestri e superare la separatezza tra i diversi regimi di tutela nazionale o regionale; prevedere un luogo di dialogo e leale collaborazione tra lo Stato, le Regioni e le autonomie locali (es. Tavolo di Coordinamento nella Conferenza Stato-Regioni); prevedere strumenti di gestione, pianificazione e programmazione unitaria delle aree protette nazionali e regionali (ripristinare il Piano triennale di programmazione per le aree protette);
9 Prevedere consigli direttivi con una composizione variabile in proporzione al numero dei comuni dell’area protetta e superare, dopo 33 anni, la presenza del Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare e delle Foreste nei Consigli direttivi;
10 Nominare amministratori degli enti parco competenti per garantire maggiore qualità nella gestione delle aree protette; stabilire il limite dei due mandati per tutte le nomine e definire chiaramente l’incompatibilità tra la carica di presidente e quella di sindaco, di amministratore o di rappresentante politico; rispettare le norme sulla incompatibilità e inconferibilità che impediscono la nomina di soggetti posti in quiescenza; garantire la presenza di genere e dei giovani nei ruoli oggi occupati esclusivamente da uomini e da pensionati; vietare il ricorso ai commissariamenti e alla nomina di direttori facenti funzioni;
11 Rilanciare la leale collaborazione tra il Ministero e le Regioni per garantire la programmazione unitaria, la pianificazione, il finanziamento e la gestione coordinata della biodiversità, della rete natura 2000 e dell’intero sistema nazionale delle aree naturali protette (comprese le AMP e quelle regionali); rilanciare la leale collaborazione e ricostituire un luogo di discussione comune tra il Ministero, le Regioni e le Autonomie locali.
Umberto Mazzantini da greenreport.it