Caro Direttore,
Nei giorni scorsi “A sciambere” ha rammentato le vicende che accompagnarono vent’anni fa l’istituzione del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. Anch’io, per quel che potevo, partecipai al dibattito, con la lettera che allora inviai a “l’Isola”, e che ho ritrovato (miracoli delle memorie digitali): la ripropongo a “Elbareport”, notandone l’attualità –che è come dire che forse si poteva fare prima e meglio se solo si fosse stati capaci di ‘ragionare’ sulle soluzioni invece che sulle verità di fede.
Mi corre l’obbligo di ricordare che, dopo la pubblicazione di questa lettera, sono stato oggetto di rancori da parte di “ambientalisti” duri e puri e di cacciatori: e una sera, a Marina di Campo, se non mi portava via sotto le sue ali protettrici Franco, cacciatore di Sant’Ilario ortodosso ma amico, non so come mi sarebbe andata a finire.
Ecco la lettera:
“Le considerazioni che propongo intendono contribuire a uno degli aspetti della discussione in corso sul Parco nazionale dell’Arcipelago Toscano, e cioè sulla possibilità e l’opportunità di applicare a questa realtà territoriale particolare dei principi sui quali, a livello generale, tutti potrebbero concordare. Mi riferisco al problema dell’esercizio dell’attività venatoria.
Devo correttamente premettere di non essere cacciatore -e per la verità non amo neppure mangiare carni di alcun genere-; di essere poco interessato, specialmente in un momento di gravi problemi sociali come il presente, al diritto individuale di svagarsi o praticare uno sport; di essere anche spesso indirettamente tormentato dai vicendevoli racconti di gloriose avventure di caccia da parte di amici peraltro solitamente piacevoli. Rifuggo dalle armi e mi disturba veder uccidere anche un pollo o un coniglio. Trovo inoltre che l’attitudine al sereno confronto problematico sia in genere modesta negli ambienti venatori, e sia praticamente assente quando i cacciatori si trovano in forma aggregata. Ma questo riguarda me soggettivamente, e non ha a che fare con il problema oggettivo della caccia nel Parco.
Venendo dunque a quel problema, credo opportuno introdurre una distinzione fra il concetto di tutela del paesaggio e il concetto di tutela dell’ambiente. La distinzione mi sembra stare nella considerazione indispensabile della presenza dell’uomo, delle sue attività, della sua storia, interna al concetto di ambiente, rispetto al più debole riferimento a una ipotetica natura distrutta dalla presenza dell’uomo e quindi da restaurare. Ora è certo innegabile -e certissimamente anche nelle nostre isole- che l’intervento dell’uomo ha prodotto dei gravi guasti, specialmente negli ultimi decenni; ma tali guasti riguardano appunto un ambiente da altri uomini sapientemente -e naturalmente- creato nei secoli e nei millenni, appunto intervenendo nella natura e sulla natura, e modificandola. A quel tipo di ambiente guardiamo come modello generale per un intervento di tutela, senza proporci un ripristino improbabile, indefinibile, irrealizzabile, di un mitico stato di natura originario.
In questo senso appartengono all’ambiente da tutelare o da ripristinare o da restaurare tanto le macchie dei nostri monti, le specie animali e botaniche endemiche, i fossi, i corsi d’acqua, le sorgenti, i depositi di minerali e cristalli, ecc.; quanto le chiese romaniche, le fortezze, le cave di granito -con le relative attività-, le vigne e le miniere, la cura delle macchie alte -che se non vengono tagliate si distruggono-, i sentieri, i nomi delle diverse località. ecc.
E anche l’attività venatoria. Già, perché in una piccola isola l’attività venatoria è parte essenziale dell’ambiente. L’esclusione della caccia nei Parchi nazionali, in generale, corrisponde alla necessità di creare dei polmoni capaci di diffondere ben al di là dei confini del parco il ripopolamento della selvaggina, creando un habitat che restituisca agli animali e al loro sviluppo lo spazio sottratto dagli insediamenti umani e dalle attività connesse, e riconducendo l’ambiente a uno stato di migliore equilibrio. Su grandi estensioni territoriali questo trova giustificazione piena, pur realizzando, in certo modo, una ulteriore modificazione dell’ambiente, in questo caso progettata per una finalità ponderata.
Ma in un’estensione limitata i rapporti fra territorio e abitanti -animali compresi- sono diversi. Come nelle città cinte di mura del Medioevo ogni spazio era funzionale alla vita e alla difesa della comunità, così nelle piccole isole non è possibile svincolare il territorio dall’uso di chi vi appartiene: se si reimmettessero -come è ben opportuno- le specie selvatiche endemiche, a caccia chiusa in tre anni si avrebbero le lepri scopaiole in casa. Mi pare che sia addirittura impensabile un’ipotesi di restauro ambientale sotto il profilo faunistico, se non prevedendo un esercizio di attività venatoria, certamente regolamentato ed eventualmente introdotto con gradualità dopo una prima fase di radicamento delle specie reimmesse: al momento infatti, a parte i cinghiali e i mufloni probabilmente da espiantare, di animali selvatici ce n’è ben pochi.
L’esclusione dell’attività venatoria, poi, significherebbe anche l’abbandono delle montagne: i mille sentieri che conducono a località dai mille nomi, dove si trovano i bellissimi caprili degli antichi pastori, accanto alle sorgenti, davanti a panorami superbi, quei mille sentieri sono mantenuti aperti -bisogna pur dirlo- appunto dai cacciatori, che conoscono le nostre montagne come nessuna guida potrà mai, perché sono eredi di una consuetudine millenaria, trasmessa attraverso l’attività pastorale e venatoria di generazioni e generazioni. E a vedere i cacciatori muoversi per quei sentieri -come è capitato a me per esser stato condotto da qualcuno di loro a sconosciute testimonianze archeologiche-; a vedere la loro capacità di sentire la presenza delle pernici o della lepre lontana; o anche a cogliere lo sguardo d’ammirazione quasi orgogliosa per quel che si vede di lassù, si capisce che questo esercito in armi ha una conoscenza della natura -una cultura della natura direi, se non temessi di esagerare pensando alle intemperanze, agli ostentati eccessi e al quasi bisogno di rudezza esibiti da taluni degli appartenenti- che dovrebbe essere sufficiente garanzia per l’ambiente.
Anzi. Il contributo, regolamentato, programmato, verificato, dei cacciatori locali può divenire strumento organico nella gestione di alcuni aspetti della vita del Parco: e così la cultura della caccia, interna al parco e dunque da salvare, potrebbe anche evolversi e crescere, a servizio dell’intera comunità.
Non intendo trarre conclusioni. Se le considerazioni svolte sono di qualche utilità, nelle sedi scientifiche e politiche deputate potranno essere riprese e sviluppate.
Qualora il dibattito in corso dovesse assumere degli orientamenti nel senso indicato, sarebbe probabilmente necessario intervenire con una modifica legislativa, per consentire di aver nel debito conto la specificità territoriale delle piccole isole; se la normativa europea non prevede una specificità di tal genere, si dovrà operare per farla considerare ed accettare. Si potrebbero impegnare le forze politiche a provvedere alle modifiche legislative necessarie, e nel frattempo a regolamentare con interventi amministrativi la materia o a emanare per decreto le norme in deroga alla legge vigente.
Io non credo che il legislatore, stabilendo l’istituzione del Parco dell’Arcipelago, abbia avuto in mente di recar danno alle isole e agli abitanti, con le conseguenze negative che per lo Stato comporterebbe un diminuito gettito fiscale. Se dunque il Parco s’ha da fare, ragioniamoci bene sopra, ché almeno sia il miglior parco del mondo".
Luigi Totaro
Sant’Ilario in Campo, 10 ottobre 1994